Epistolario

Un'opera inedita di Calogero...
Lettera-saggio a Vittorio Sereni
Un'opera inedita di Calogero...

UN’OPERA INEDITA DI LORENZO CALOGERO E LA SUA CORRISPONDENZA LETTERARIA

di Amelia Rosselli, in La Provincia di Catanzaro, 1983, pag. 67

 

 

Due grossi volumi delle “Opere Poetiche” di Lorenzo Calogero uscirono con Lerici (direzione letteraria Roberto Lerici) nel 1962 e nel 1966.
Purtroppo nessuno di questi due volumi densissimi di grande e difficile poesia, sono facilmente rintracciabili, salvo forse in qualche remainders di provincia. Senz’altro i critici e i letterati più avvertiti hanno comprato ambedue le opere in tempo; infatti il primo volume, che includeva la raccolta “Come in dittici” del 1954-1955, e la raccolta sparsa finale riveduta dal curatore R. Lerici “Quaderni di Villa Nuccia” (1962), ebbe notevole successo di vendita e fu anche ristampato malgrado la sua mole (432 pagine) con eccellenti critiche per tutta l’Italia e anche all’estero tramite per esempio Literary Supplement e Die Welt di Amburgo. Il volume secondo, un poco più breve, includeva le raccolte “Ma questo…” del 1950-1954 e “Sogno non più ricordo” del 1956-1958.
Evidentemente il presentatore Giuseppe Tedeschi, e il curatore R. Lerici avevano inteso introdurre le opere più salienti per prime, e tentarono di presentarle “a ritroso” ma dovettero rivedere le date in senso bibliografico, al secondo volume, visto che Calogero, morto nel 1961, aveva lasciato quaderni a non finire, con varianti nelle ricopiature a mano e qualche volta anche in quelle dattiloscritte, che si contraddicevano tra di loro. Infatti “Quaderni di Villa Nuccia”, è titolo di Roberto Lerici applicato alle ultime e significative poesie dell’autore, che s’era ammalato di nervi attorno al 1959, ed entrava e usciva a volte per lunghi periodi da una clinica infatti chiamata Villa Nuccia, presso Catanzaro. Scrisse dunque dal 1959 al 1961 i quaderni di Villa Nuccia, ma alcune poesie dovettero venire o scartate o tagliate per via delle cure di clinica un po’ frastornanti, che sconvolgevano lo stile del Calogero, malgrado la sua ripresa e ritorno a Melicuccà sopra Reggio Calabria, dove egli viveva da moltissimi anni. “Come in dittici” è opera del tutto integrale, così come lo è “Ma questo…” e “Sogno non più ricordo”.

Il secondo volume ebbe purtroppo divulgazione limitata perché la collana letteraria della Lerici chiuse i lavori poco dopo l’uscita del libro con le belle fotografie concernenti la vita difficile condotta dal medico poeta Calogero (campagne attorno a Melicuccà; fotografia di lui presumibilmente in viaggio in cerca d’editore; intorno alla sua casa poverissima, piena di libri, cicche, e solo qualche traccia di lavoro; fotografie di manoscritti autentici di scrittura difficile su quaderni scolastici a quadretti) rendevano l’idea complessiva che l’autore forse suicidatosi a cinquantuno anni non fosse mai stato del tutto sano di mente. In disaccordo con questa tesi, pur rispettando la ricerca attenta fatta dai due curatori, vorrei far notare che il Calogero sia nella poesia, sia nelle sue lettere prima a Carlo Betocchi in gioventù, poi a Sinisgalli che lo scoprì, sia a quelle al capo-collana della Mondadori, Vittorio Sereni, sia in quelle ultime a  Giuseppe Tedeschi, mostrava una quasi continua lucidità, notevole per lo stile stranamente complesso anche dal punto di vista sintattico. Nel trarre  brani da queste molte lettere scritte nell’isolamento di paesini o umbri (Campiglia d’Orcia, in collina, vicino Siena) o di solito  calabresi (praticava, attorno a Melicuccà dove finalmente si sistemò cercando di trovare altro tipo di lavoro tramite pubblicazioni su riviste letterarie note o con editori del Nord) ho notato che complessivamente queste lettere formano una specie di estetica o introduzione al suo proprio lavoro, così come infatti il Calogero aveva tentato di fare capire a Sereni scrivendogli una lettera-saggio di venti pagine attorno al 1960. Anche dalla sua introduzione al libro di poesie giovanili del 1932-1935, da lui stesso pubblicato, in proprio tramite piccolissima editoria a Campiglia d’Orcia, Siena, nel 1956, ho tratto qualche passo per dare una complessiva immagine del suo pensiero sia poetico sia filosofico. E vorrei che l’autore stesso parlasse, tramite queste sue grate lettere a letterati lontani, riportando le sue stesse parole piuttosto che imporre un mio personale punto di vista sovrastante a tanta difficile e apparentemente ambigua poesia così poco conosciuta malgrado l’iniziale successo. Solo ora molti giovani si chiedono quali formule vi fossero nascoste dietro ad uno stile così nuovo non facilmente classificabile come di scuola “ermetica” e quale fosse la reale ambizione d’un medico di provincia così disastrato nei suoi insuccessi presso gli editori e anche sul piano umano, ammalato, non sposato, isolato, e apparentemente ammalato anche di nervi al punto di tentare due volte il suicidio sia da giovane sia in fine. La serenità veramente abbagliante dei versi di questo meridionalissimo scrittore di cultura ben più che media, di provenienza borghese e cattolica, ribelle non agli affetti famigliari ma forse all’ambiente letterario corrente ed anche alla Chiesa, ha incuriosito non solo i giovani ma anche altri poeti.

Dalle lettere: (tematica della tecnica poetica).
(1) …Bene ha fatto col ricordarmi che i motori coordinatori del mio canto dovrò cercarli nella ragione che lega cosa a cosa e non accostando le cose per quel che di estremamente istintivo esse contengono.

(2) …Come io intenda la manifestazione espressiva in rapporto alla verità essa può essere semplice numero (matematiche), formule di indagine scientifica propriamente detta (scienze fisiche) o come nel caso del presente libretto semplicemente immagini.

(3)  Anche il pensiero deve venire inteso e traspare come un modo della tecnica… Le sole cose che per me più valgono di uno scrittore sono gli estremi attraverso cui si muove il suo pensiero… I suoi estremi sono quelli che potrebbero chiamarsi più infinito meno infinito, gli stessi elementi che prende il calcolo differenziato per determinare le sue leggi e le sue scoperte teoriche…      
… La pagina, l’immagine, la parola, il suono, la pausa le quasi possono studiarsi come elementi della tecnica,  una volta che si sia penetrati dentro gli estremi entro cui si muovono, è ben altra cosa. Il calcolo infinitesimale… si muove tra un più o meno infinito che differiscono di volta in volta per una particella puramente quantitativa. Gli estremi di una parola sono condizionati da estremi di un sentimento a volta a volta diversissimo e che sono quelle  entro cui avviene il discorso.
…Nessun realismo o neorealismo o altro del genere è possibile, in termini veramente poetici, senza l’immaginarietà originaria della parola. Se al realismo negli ordini più pratici della vita … non si può negare valore, tuttavia esso è la più specifica conseguenza della parola, la quale, rispetto a tutto il rimanente tessuto della vita, rimane sempre come un numero immaginario.  
…Viene spontaneo pensare che poesia tende ad essere sempre più pensiero puro.       
…Ove notava che quando tendo a realizzare un’immagine, ne distolgo quasi apposta il lettore con altro verso in altra direzione, ammesso com’Ella dice nell’ “Avvertimento”, che l’operazione che tento praticamente ha l’indeterminatezza di certe analisi portate sulle qualità sfuggenti, potrei giustificarmi che importa meno la direzione dei contenuti obbiettivi delle immagini, quanto che l’indeterminatezza si muova sempre con minor attriti. Se l’indeterminatezza avvenisse attraverso passaggi talmente graduali, da essere quasi del tutto impercettibili, molto maggior numero… di direzioni diverse potrebbero entrare in qualsiasi composizione poetica.
…Si ricorderà che in altra mia Le dicevo che tutte le scienze fisiche e persino le scienze matematiche sono null’altro che costruzioni poetiche.

(4) …quella che sarebbe potuto essere la migliore delle mie poesie, e che in nessun caso avrei potuto trascrivere, mi è venuta in sogno in un’epoca in cui avevo 24 o 25 anni…
Ritmo e pensiero sebbene avessero un’autonomia assoluta, perché si trattava di effettiva poesia…seguivano una misura fisica: la diversa lunghezza dei versi; si compenetravano in un’unica onda che si svolgeva per trapassi così insensibili che ne era impossibile il ricordo da svegli.

(5) …La maggiore specializzazione del linguaggio, più forte in poesia che in filosofia, specializzazione che contiene sottintesi e tacitamente tutti i nessi logici attraverso cui si realizza un discorso…
…Aver messo in chiaro e in evidenza l’elemento che proviene dalla suggestività e che si attua con modi che mettono la suggestione in primo piano, con mezzo di coscienza e conoscenza.
…(Bisognerebbe risalire ad una lingua del tutto originaria o quanto più possibile originaria per potere avere un nesso evidente fra segno e contesto del discorso)…

(5)bis …Una poesia che procedesse da parole, insignificanti fra loro nel discorso del tutto suggestivo e procedente per suggestioni extralogiche. Che ciò, poi, potrebbe essere origine di una nuova logica (non conosco nulla della logica simbolica ma credo che non potrebbe trattare di questa) agente tutta per suggestioni, credo che non sarebbe un’ipotesi del tutto azzardata…
…Convinto, come sono, che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato.

(6) Io escludo che dentro i termini del linguaggio o di ciò che si realizza come linguaggio possano esserci cose sicuramente ed effettivamente opposte.
…Sinisgalli?… le sue idee, in cui la poesia paragonava ad un numero puramente immaginario, cui si legava (mi sembra) un numero reale.
Per la poesia non valgono certamente le parole del Vangelo: chi non è con me è contro di me. Si può pertanto immaginare anche una poesia completamente neutrale, o quasi, di fronte agli scopi che la vita si prefigge.
…Una nuova scienza, una scienza ultra matematica, una matematica della matematica che sarebbe null’altro che la poesia.
…Sono pochi i versi in cui la vita viene ad essere costretta dentro un nesso di parole che non permette facilmente variazioni.
n.d.r. (tematica dei contenuti filosofici)

(7)  …Non credere in alcuna filosofia sia pure la più ragionata (e per me la più coerente)

(8) …Non posso dare alcun valore sicuro e significativo ad alcuna filosofia della pratica o che, voglia tendere alla prassi, perché comunque la parola si muova il suo unico possibile campo di azione e di sviluppo è uno che se non rappresenta una vera teoria a questa certamente tende. Non so proprio immaginare altro uso ed impiego della parola.

(9) …Penso che la conoscenza che si avvicina alla pura contemplatività sia per se stessa una conoscenza di maggior valore e di grado più raffinato e più perfetto…, e pure è la conoscenza che solo raramente, e sempre in maniera più difficile riesce ad esprimersi palesemente, e ciò, forse perché essa è legata per la sua stessa natura ad una deficienza dei mezzi espressivi e di condizioni che ne permettano l’estrinsecazione compresa perfino la memoria.
…Versi che mi sembra rendano sia l’elemento straordinariamente individuale che quello appartenente ad una collettività anonima ed antichissima…

(9)bis …Per chiarire i nessi che legano l’essere al fenomeno di esso che chiamiamo coscienza dire, per prendere i due casi più caratteristici, che maggiore è la distanza che lega il fenomeno amoroso alla coscienza che non quella che lega la medesima alla pura speculatività.

(10)  …Un mondo poetico fondamentale dell’uomo, il cui requisito fondamentale non sarebbe altro che il rispetto del sentimento umano, a partire, almeno, già da quanto c’insegna il mondo giuridico e le necessarie e fondamentali possibilità etiche.
…Vocazione letteraria…quanto agiva ed agisce quasi incosciamente, il che, ridurrebbe l’attività del letterato a quel che più vale di lui ad una zona più o meno mistica.
…Vocazione poetica potrei definire ciò che mi spinge a dare forma pura e concretezza (questa ultima potrebbe anche definirsi contenuto)… coincide più o meno direttamente con ciò che sentiamo di potere definire oggetto poetico vero e proprio… sarebbe null’altro, principalmente, che un oggetto puramente etico ed impregnato dai requisiti dell’eticità, la quale non sarebbe altro che reciprocità pura…
Non credo… che sarebbe un’ipotesi assurda pensare che, dentro rapporti sempre più tesi l’eticità che si mette in evidenza, attraverso la conoscenza di zone sempre più vaste di zone cosmiche, diminuirebbe…
…L’elemento etico è per se stesso indecifrabile e avvolto in zona e forma mistica…, e variamente rappresentabile ed esprimibile attraverso… la suggestività, la quale, se massimamente presente ed evidente in poesia, è costante, sebbene molte volte del tutto latente, in ogni forma di speculatività.
…Uno degli oggetti della mia vera vocazione poetica: l’ammissione costante sebbene… tacitamente sottintesa di un’idea etica e poi di un oggetto etico e poi di una zona mistica in relazione costante sebbene preliminare, con tutti gli abbozzi di idee eticamente possibili e quindi, in un certo senso, oltreché con le loro possibilità contrarie con un circuito di possibilità mistiche, perché, almeno, non appartenenti alle possibilità puramente logiche dell’uomo se non nel senso di ciò che nettamente le precede … su quello che riguarda il prodotto di quello che promana dall’irradiazione mistica.
Le dirò… che non ammetto che esista un pensiero che non si attui attraverso la tecnica che pertanto possa considerarsi non tecnico, compreso, s’intende, quello che entra nel tessuto della poesia, e che la poesia nient’altro è che una speciale tecnica dell’attività pensante, perché l’oggetto etico e l’irradiazione mistica rimangono in questo nascoste nel profondo della coscienza, ma vivi ed effettivamente operanti…
Il misticismo di cui parlo… e null’altro che un misticismo relativo che senza essere la pura e semplice contemplatività la sfiora semplicemente…
La poesia… è quasi del tutto immediatezza e quasi del tutto assenza di lavoro.
E la fase preparatoria a questa immediatezza come sarebbe? Forse lavoro più di quanto ne richieda la scienza per attuarsi… Comunque il poeta precedentemente al poetico che darebbe una qualsiasi ragione a quel quasi notato precedentemente quando non azzarda e gioca col caso sarebbe un quasi puro religioso. E ciò che costituisce il substrato di ogni religione, cioè Dio, sarebbe quanto di più lontano esista per l’uomo ed a cui come è pericoloso pensare di avvicinarsi per le pessime suggestioni che da questo tentativo possono provenire, così diventerebbe il più faticoso dei lavori.

(11) … So anche che costa meno la verità che la menzogna o la quasi menzogna.
… Se per filosofia intendiamo, qualcosa che sia pure un’immagine (e che cosa potrebbe essere che non sia un’immagine?)…
Ti dirò, del resto, che ciò che più mi sgomenta dei Vangeli è ciò che può chiamarsi la fatalità del male, fatalità, questa, che metterebbe sempre in più serio imbarazzo la possibilità di conoscere se stesso.
E’ certo, secondo me, che il poeta non conclude quasi mai nulla e che solo qualche volta conclude qualcosa, e sempre ben poco… Tuttavia dirò una cosa, che credo della massima importanza per la poesia in genere, e cioè, che il problema della poesia non risiede tanto e solamente in quello che possiamo chiamare poesia scritta, quanto, e massimamente, nei problemi più urgenti per una sempre più equa giustizia sociale. Che cosa ha da fare, si potrebbe domandare, la poesia con la giustizia e con il senso della giustizia?
Non intendo proprio riferirmi a quella che si può chiamare “poesia populista” che molto raramente, forse, riesce ad essere vera ed effettiva poesia o a suggerire qualcosa che sia come la sostanza ed il midollo della giustizia e del senso della giustizia.
Il mistero della giustizia, potremmo dire, secondo il principio evangelico.
Fra letteratura, filosofia e politica, la politica mi sembrerebbe la cosa più interessante e più degna di rilievo, non fosse altro perché si occupa del maggior bene collettivo (intendo dire in senso economico), accessibile e comprensibile alla maggior parte degli uomini… Se dovessi fare una confessione circa le mie tendenze politiche dovrei, intanto, dire che mi sento dall’estrema destra orientato verso l’estrema sinistra…
Che voglio concludere con ciò che sono giusto? Credo, a tal riguardo che uno possa sentirsi tale a patto di non pensarci. Che voglio fare come si dice nei salmi: Chi si salverà, o Signore, dalla tua giustizia? …Comunque è molto difficile salvarsi dalla giustizia di chiunque. Subito dopo mi dice che ridurre la vita a verità è il compito più inquietante, già direi che la vita non si può ridurre mai completamente a verità.
…Quali che siano le comodità materiali di cui si possa godere, per quel che riguarda la felicità sarebbe di somma importanza la libertà e la buona educazione. Ma chi dà o è disposto a dare simili cose? Naturalmente chi le ha. Ma oggi, come oggi, chi le ha? O io, e con me anche gli altri, dobbiamo dare credito di impartitrice di libertà e di buona educazione a chi sistematicamente non si è dimostrato all’altezza di questo compito, o chi per sistema crede di poter agire in questo senso?
La letteratura, per quanto riesco a immaginare, è condizionata dal fatto che dà come contenuto obbiettivo ciò che anche è vissuto come massimo senso etico interno…
Escluso i religiosi, su cui credo di non potermi pronunziare in alcun modo, i veri maestri e ammaestratori dei popoli sono e sono stati principalmente i poeti.
La scienza misteriosa, a questo riguardo per quanto possa essere effettivamente utile, potrebbe valere molto di meno.
Le mie poesie poi, può darsi che siano prive della più elementare importanza come della più comune ed elementare analisi logica e grammaticale, comunque questa analisi logica e grammaticale possono essere intese in un senso del tutto personale.
n.d.r. (tematiche biografiche dell’autore)

(12) …Sebbene nella mia poesia niente sia di confessato.

(13) …La mia vita? Questa mi appare quanto mai sempre più complicata e che via va complicandosi sempre più. Mi pare, talvolta, che essa si realizzi per via di simboli del tutto enigmatici che, per me, prima non esistevano o mi sfuggivano completamente…
… Sebbene non mi sia dedicato tutta la vita a scrivere versi e per molti, quasi moltissimi anni direi, mi sono occupato a fare il medico, son vissuto, dentro la mia professione, quasi interamente, come se scrivessi versi. Ove mi si proponesse di essere felice collettivamente, credimi, non avrei nulla a che fare con tale felicità e sono sicuro che rifiuterei. Se dovessi essere mai felice, vorrei ciò avvenisse in modo del tutto individuale a patto che la collettività fosse quasi del tutto nominalistica, non si dovesse sentire il peso della collettività come tale che come tale s’imponesse.
D’altronde so che… gli altri uomini o, semplicemente essere umani, poiché possono essere compresi anche le donne, partecipano, poco o molto che sia di certi segreti (non sono semplicemente modi di vita) che a me rimangono del tutto sconosciuti… Che anche il rapporto amoroso, fra uomo e donna, oggi come oggi… non so considerarlo altrimenti che come un rapporto puramente angelico… Del resto un certo angelismo credo che debba esistere e sia esistito sempre in qualsiasi rapporto o relazione effettivamente, amorosa.
In me è esistito, sempre un difetto della facoltà analitica che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso di tante cose nella vita. Ma quella era impegnata in moltissime altre cose che, non dirò mi sembravano importanti, ma erano effettivamente importanti, per condurre una vita, sia pure, ai margini ed ai margini effettivamente, estremi o no, era.
Intanto io so che sono e sono stato da sempre uno schizofobico, un psicastenico, ed un pauroso per eccellenza.
…Quanto nella vita ho perduto. Ma c’e stato qualcheduno mai che nella vita ha guadagnato? Si potrebbe dire forse che nella vita ha guadagnato solo chi ha avuto. Ma questo ha avuto, non ha guadagnato. Si potrebbe ritornare a ripetere che può apparire di aver guadagnato solo perché ha avuto. Credimi che se un vero e perfetto disgraziato mi appaio io spesso, altri disgraziati mi appaiono tanti altri, i quali o non se ne accorgono o non lo dicono.

Bisogna dire che tutte le opere di Lorenzo Calogero furono primariamente pubblicate a proprie spese, sempre tramite la piccola editrice Maia di Campiglia d’Orcia presso Siena, dal 1956 in poi. Calogero ricavava cinquecento copie da ogni pubblicazione, che spesso doveva lui stesso ritirare dal mercato.
Furono questi testi ad essere spediti a Leonardo Sinisgalli che subito se ne interessò. Dal 1955 in poi Calogero e lui si scrissero e nel 1956 Sinisgalli scrisse per lui una prefazione per “Come in dittici”, sempre per le edizioni Maia. Malgrado ciò non vi fu alcuna attenzione della critica. Anche nel 1955 aveva tentato di stampare presso Einaudi, e con Vallecchi (tramite Betocchi con cui in gioventù aveva tenuto corrispondenza). Dal 1954 al 1956 il Calogero aveva ottenuto carica di medico condotto ad interim a Campiglia d’Orcia in provincia di Siena, ma ne venne dimesso in seguito ad una delibera comunale.
Non che non fosse ottimo medico, come testimoniano i suoi studi a Napoli, ma il suo interesse per la poesia, e l’isolamento a Campiglia grave perché s’accentuava il suo essere fuori contatto con la sua terra, lo rendevano strano agli occhi della gente o, suppongo, delle autorità mediche. Tornò, perciò a Melicuccà: aveva in precedenza praticato in numerosi paesi o paesini della Calabria, ma abbandonava spesso i posti di lavoro per poi ritirarsi definitivamente a Melicuccà dove anche lì praticò con nessun successo.
Di lui è interessante notare l’origine di famiglia benestante, lui terzo di sei figli tutti medici, avvocati e ingegneri. Era nato a Melicuccà, nel 1910, da padre possidente e figlio di notaio, e da madre Maria Giuseppa Cardone nativa di Bagnara Calabra, paese pochi chilometri da Melicuccà anch’essa possidente figlia di farmacista. Il Calogero fece gli studi elementari a Melicuccà, paese del padre, poi la quarta e quinta elementare a Bagnara Calabra presso zii materni; nel 1922-1928 la famiglia Calogero si trasferisce a Reggio Calabria dove Calogero frequenta l’Istituto Tecnico e il Liceo Scientifico. Nel 1929-1930 la sua famiglia si trasferisce a Napoli. Nel 1930 Calogero s’iscrive alla facoltà di matematica, scrive le prime poesie e decide nel. 1931 di passare ai corsi di medicina. Tra il 1932 e il 1933 scrive buona parte dei versi di “Parole nel tempo”. Tenta di pubblicare sulla rivista “Frontespizio”.
(14) Comincia a mandare poesie a premi, riviste e case editrici. La sua famiglia si ritrasferisce a Melicuccà per ragioni di ristrettezze finanziarie; lui rimane a Napoli, e poi anche lui tornerà a Melicuccà dove inizierà ad esercitare la professione (abilitazione 1938). Si fidanza con una studentessa di lettere di Reggio Calabria, il fidanzamento durerà cinque anni, e s’esplicherà anche tramite una lunga corrispondenza. Pratica poi in vari paesi della Calabria, scrive, dopo lunga interruzione di circa quindici anni, altre raccolte con ritmo assai intenso e di diversa più evoluta capacità, dal 1950 sino agli ultimi anni.
Ed è infatti proprio l’incontro per lettera con Sinisgalli, di cui ammira molto “Furor Mathematicus”, a fare nascere in lui speranze per pubblicazioni non a pagamento. Nel 1956 lascia l’incarico temporaneo ad interim senese, dove visse e scrisse soltanto per due anni, passa per Roma, s’incontra non solo con Sinisgalli ma anche con Giuseppe Tedeschi, con cui, come si vede sopra, anche ha una fitta corrispondenza. Attaccatissimo alla madre, dopo la sua morte nel 1956 ha ricadute d’un male che si può soltanto vagamente chiamare «nervoso»  tanto strani sembrano perfino a lui la sua apatia, depressione, e mancanza di contatti rassicuranti. Viene due volte ricoverato in clinica privata presso Catanzaro. Nel 1957 vince, sempre per l’interessamento di Sinisgalli che lo presenta alla giuria, il Premio Villa San Giovanni per le tre raccolte “Parole nel tempo”, “Ma questo…” e “Come in dittici”. Ciò non lo rincuora. Cerca ancora accanitamente un editore, ha contatti con Enrico Falqui.
Sinisgalli presenta un gruppo di sue poesie su “La Fiera Letteraria”, Calogero ha però in quel periodo un nuovo ricovero a Villa Nuccia, e la sua vita di tutti i giorni e oramai non più quella d’un medico: tralascia volontariamente la professione. Scrive febbrilmente, mangia pochissimo, solo caffè, sonniferi e sigarette.
Nel 1959 inizia a scrivere poesie poi raccolte sotto il titolo “Quaderni di Villa Nuccia”, da Roberto Lerici nel 1962, un anno dopo la sua morte. Direi che le abbia scritte circa tra il febbraio 1959 e il maggio 1960. È anche allora che scrive a Vittorio Sereni, da poco direttore editoriale della Mondadori, e riceve come risposta garbata e analitica, un «no possibilista» quanto alla pubblicazione delle sue migliori raccolte. Passa anche un intero anno a Villa Nuccia, per poi tornare come al solito a Melicuccà. Nel frattempo il giovane critico Tedeschi consegna una scelta delle sue poesie a “L’Europa Letteraria” con prefazione di Sinisgalli e breve curriculum dell’autore. La pubblicazione uscirà nell’aprile del 1961, un mese dopo la morte di Lorenzo Calogero datata approssimativamente il 24 marzo 1961.
Secondo Roberto Lerici, Calogero avrebbe scritto in tutto circa 10-15.000 versi; l’unico testo del Calogero non pubblicato sia dall’editrice Maia sia dalla prima Lerici, la quale però intendeva più tardi presentare un terzo volume delle “Opere poetiche” di Lorenzo Calogero, e “Avaro nel tuo pensiero”.
“Parole nel tempo” fu come sappiamo pubblicato nel 1956 da Calogero stesso, si tratta di poesie scritte tra i ventidue e venticinque anni, e perciò ancora informi. Propongo che in questo terzo ed ultimo volume per la seconda Lerici, di dimensioni un po’ ridotta rispetto ai primi due volumi stampati nel 1962 e 1966, siano inseriti alcuni dei brani tratti da questo libro giovanile; ma nell’insieme considero ben più importante e interessante “Avaro nel tuo pensiero” scritto a Campiglia d’Orcia vicino a Siena in quel che potrebbe essere un periodo brevissimo di circa 11 giorni (16-10-1955 / 27-10-1955). Non è chiaro nel manoscritto se questo possa essere vero: al dunque Calogero scriveva raccolte di una media di 150 pagine nel giro di almeno un anno, se non due o tre. Forse che si tratti invece d’un ricordare quasi narrativamente, un’epoca di intensa esperienza, non di durata superiore ad undici giorni? Propendo per la prima ipotesi: si tratta di 133 poesie, alcune forse nei confronti d’altri scritti precedenti o posteriori, meno precise e controllate; quasi vi fosse troppa fretta nel riprendere stilemi tipici e propri, o troppa abitudine al cosiddetto «segno» o simbolo, a frasi simbolo reiteranti, a tematiche in parte naturiste in parte amorose contenute non soltanto da rosa di «segni» ma da vocabolario in questa raccolta un poco monotono e più infittito di personale formulario che non nelle altre. Tuttavia, avendone scelte 13 per la rivista “Tabula” (n. 3-1980), ho notato che mirando a scegliere le qualitativamente migliori e contenutisticamente più varie, il livello era altissimo. Perciò rendo il testo intero, non volendo pregiudicare il lettore, ma avvertendo che le più note raccolte sopra menzionate hanno forse una unità di valore più costante.
Sia per le tematiche di fondo, sia in alcuni casi nel rintracciare ciò che Calogero chiama «segni», (punti fissi del discorso, contenuti e in un vocabolo fisso, o in una frase tipica, o in detto quasi filosofico reiterante) è interessante riportarsi alle opere giovanili include in “Parole nel Tempo”. II libretto di 234 pagine delle edizioni Maia include tre brevi raccolte, e cioè “25 Poesie” (1932-1933), “Poco suono” (1933-1935), “Parole nel tempo” (1933-1935).        
Non molto volentieri riporto intere poesie da questa, raccolta complessiva, a cui Calogero aggiunse una elegantemente scritta prefazione nel 1956; però in tutte tre le raccolte incluse sono rintracciabili infatti le tematiche 1) filosofico-letterarie e 2) dei «segni» o simbolo usato quasi a modo di corolla al verso dilagante.
A mo’ d’anticipo sui testi scritti ben quindici anni più tardi, spiccano segni, frasi e detti, che tanto vale riportare, per capire meglio poi il complesso linguaggio non più intimistico delle quattro lunghe raccolte scritte dal 1950 al 1960. Se le poesie di “Parole nel tempo” ci sembrano ancora informi è perché in esse v’è come una ingenuità un poco provinciale, in cui la parola è un poco presa a prestito, il ritmo ancora non personale, i classici troppo ricordati. È piuttosto nelle tematiche che si ritrova il Calogero degli anni 1950-1961: e ne cito alcune:

(pagina 18)
«Lievi ondeggiamenti di vetro dentro una foglia»

(pagina 21)
«Fatica/perigliosa all’anima inumana»

(pagina 27)
«Si sente che la vita è impostura»

(pagina 27)
«Nella mitezza di nuovi padroni»

(pagina 28)
«Ma su una sedia corrotta stando noi taciti seduti»

(pagina 213)
«Gli uomini dormono in sogno pieno rimirando con occhio stanco in sogno»

L’ultimissima poesia, piuttosto lunga, intitolata “Viaggi Sotterranei” benché scritta nel 1935 si riallaccia ad un paragrafo quasi visionario. Da una lettera scritta in forma di saggio introduttivo, per Vittorio Sereni, datata 25-10-1960. II passo è il seguente: “Resteranno ancora parecchie cose che io non conosco e forse non conoscerò mai? E pure quello che ho appreso è veramente tanto, per cui il titolo che avevo pensato per un mio libro di poesie… avrebbe dovuto essere quello «Città fantastica»  intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa, mi sembra in qualche modo di averla vissuta in altro modo in quest’ultimo periodo della mia vita. Pensando a quel titolo e pensando alla possibilità di una espressività intercomunicante… pensavo anche “quasi” ad una città del tutto notturna, dove ogni punto di essa fosse in relazione e comunicante con tutti gli altri. Non ho mai pensato di dare alcuna rappresentazione di tale città convinto anche, come sono, che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato».
La poesia del 1935 intitolata “Viaggi Sotterranei” include un passo che prepara almeno embrionalmente “Città fantastica”, già nella mente dello scrittore verso  i venticinque anni:

Un velo di cinta
di una città immobile appare
che si stende a perdita d’occhio.
Abita ivi una folla
di popoli uraganici
fuorviati dall’abitazione loro,
la cui eco profonda
penetra per antri e caverne.
Sono uomini senza alcuna evoluzione,
senza alcuna nozione
del tempo e dello spazio
o della profonda notte
che si stende continua su di loro.
Soliloqui altissimi avvengono.

Quanto alle parole o frasi «segni» che diventeranno ancora più evidenti e ripetuti nella raccolta “Avaro nel tuo pensiero” (1955), cioè d’uso più abituale o forse ostinato, anche essi sono rintracciabili nelle più note e già pubblicate raccolte “Come in dittici”, “Ma questo…”, e “Sogno non più ricordo”, dove il loro ripetersi e però meno costante, e di tocco più leggero e allusivo. In “Parole nel tempo” di quindici anni prima, dove lo stile e le intenzioni dell’autore sembrano non del tutto sicuri, le parole e frasi dette «segni» (o simboli consci del vocabolario) sono frequentemente le stesse di quelle delle susseguenti raccolte scritte tanto più tardi da fare pensare che non si possa parlare di un inconscio uso di parole chiave, anche se a prima lettura ciò può sembrare vero. Mi si dice, tramite un giovane medico calabrese che comincia a scrivere versi, che è d’uso vicino a Cosenza, per esempio, esprimersi a voce tramite alcuni simboli «quasi» concreti, accompagnando un discorso di poche parole monotone, cioè un discorso di non ampio vocabolario. Il Calogero di “Parole nel tempo” si serve degli identici simboli segno e frasi che userà poi nelle quattro lunghe raccolte del 1950-1960.
Ne riporto alcuni esempi:

Segreti neri non veri angosciosi; sulla cima mossa dormente degli alberi; raggio sopra un ramo; tarde come carezze di capre; cigli del cielo; di nuvole biondo oro e viola; come un giro di vecchie danze; pallidi cieli; rose; volto chino; gemme; nell’altrui dolore; chiome; vene; luci… fievoli e vane; capricci; una torbida cosa fiorita sopra un triste viso serio; raggio; un moto… la disserra; pallidezza; silenzio non vano della terra; striscia nera; palpebra; un volto perduto in due; tenue com’è una sfera; nei muti suoi veli; sprizza la pupilla; sento la mia pupilla affogare; gli eventi hanno la faccia nel vuoto; ciglio dell’anima; immensità bianca; una coltrice rosa; cuspidi, pinnacoli ascendenti; come ruga trascorre una fronte; una rupe; corallo; nuvole di rosa; denso di rami; voce bruna; l’azzurro e il sereno; chiostra che si disegna sui monti; ombra bianca lunare; povera veste; palpebra; sonno; paese azzurro; vaghe conchiglie; la loro povera vita è vissuta; sogni che è mattina; di onda in onda; fievole stilla / di raggio di sole; ciglie dei monti; invisibile violenza; bianca ala; nastro azzurro; isole nivee; raggio tangenziale; vele mobile; funebri aiuole; cupole molli di aria; si disserra; echi; voluttuosi; umili pazienti occhi; i contorni e le cose.

In “Avaro nel tuo Pensiero” i  «segni» semantici si raffineranno: gli esempi abbondano, e ne dò alcuni, visto che il lettore conoscendone l’origine già da “Parole nel Tempo”, può benissimo districarsi da solo in tale boscaglia, e notarne l’usualità ripetitiva:

curva vena aerea; lievemente è sulle vene glauca una /stanchezza bianca; nell’aria vana tenue; solo l’altrui dolore; morbida guancia; voglie vane; sono contro vetrate glabre; vene; mani; se desiderio e sogno; luce d’albero; una vetta d’alabastro; al cielo d’una vetta; luce rosea e rossa; in un tremito, una linea veloce e umida; tumido; nuda e muta; nel fondo umido; pere; ombra; tacita; plumbea; l’umile orizzonte; ombra densa di pensieri; le cose nel tuo sguardo; sotto umili tende; il vuoto; una luna coi pori falsi; nelle vene tue carnose; cime abbaglianti di alberi; una solida cosa; miti occhi teneri; enda cupa dell’aria; tenere tuo sono; vane evento; il suo sonno che riposava; ultima linea vera; una lontana vena; una pura vena; un piccolo ritorno; al margine dei segni; soffuso pallido di rosa; un tutto era d’aria; la quiete… delle… ciglia; per l’altrui dolore; gote; begli occhi; tenera tua becca; umili di nuvole rosee; ora vago in trasparenza; parlò una mano glabra; su rose grigie e rosse; nivee era il tramonto; vani sogni; zolle umido e lisce; le sembianze nel nulla; campo nudo; occhi ora rivedo vuoti; in un poro socchiuso s’apriva una sfera; in se stessa riassorta; pallida guancia; favola fievole; pioggia tinnente; le tue mani modiche; gregge; frette; core; a schiera; vetro; guancia; sonno; sogno; sfera; glauca; indifese; povere; fango; danza; lumi; luci; magico; riso; velocità.

Più interessante è l’uso di frasi «standard» quasi di popolare filosofica intenzione, per esempio:

che in se stesso si serra; in questo va e viene; e perché una gioia non si rischiara più due volte; e con ordine un va e viene; fosse questo e quello; tutto riverso sono dentro un mio pensiero; un più e un meno; una scintilla in più e meno; trattenendo se stessa sempre; languiva sempre in se stesso, solo; come persone deste vivo oppure morto; i corpi nostri o vivi o morti; nelle vene dell’altrui dolore; dei vivi e dei morti; era in due denso un tuo fietto questo e quello; in più o in meno; e perché un povero cuore non poteva dire sì due volte; così povera due volte d’amore.

La lingua invece originariamente «letteraria», dell’autore s’affina anch’essa, e origini greche e classiche sono chiare – in opposizione al «segno» -  oggetto semplicistico, o punto di riferimento non solo fantasioso ma materico. La cultura di Calogero è profonda, le sue letture molte ed includono tutti i moderni francesi soprattutto, con riferimenti a Kant, Croce, Heidegger, Wittgenstein e anche in particolare Borgese, Quasimodo e D’Annunzio. La lingua di fondo raffinatamente letteraria ha scelte neoclassiche che anche in questo caso s’identificano col vocabolo: vedi l’uso di forme antiche e letterarie quali:

ceduo, pervinche, lacustri, elleno (da «esse» ), albicanti, efelide, ecciduo, amarulento, sorgiva, origene, pruina, le prode, embrici, ambagi, mi riattempo proclive, l’intercapedine, una chiostra, tegumenti, diaccia, l’incesso, un nembo, la selce, temperie, frotto, plaga, piaggia, lembo, erme, egivale, il marezzo, seriche.

Ma la poesia non è certo fatta di scelte semantiche  «segnaletiche», simboliche, o neoclassiche che siano: l’inusuale del linguaggio di Calogero è la sua plasticità ed estrema attenzione ad una sintassi di logica indiretta, forse appresa attraverso gli studi di matematica durante il primo anno di ingegneria a Napoli, oppure tramite gli studi di filosofia moderna. La sua sintassi se nelle prose delle sue introduzioni o lettere a volte si confonde in tratti di sinuosità e durata eccessiva, nella poesia è completamente controllata. Essa sembra riecheggiare Leopardi, e a volte l’ottocento tutto intero, ma è invece se non come si usa un pò assurdamente dire oggi, post-moderna, almeno previdente e bastante a se stessa: cioè richiama alla fantasia come una formula segreta delle cose dei verbi e dei nomi, con alfabeto riecheggiante e musicalmente non ovvio.
La sua metrica andrebbe studiata nel suo evadere ogni sistematicità, benché accentuativa. Non vi sono mai più di quattro e cinque versi in fila che si ripetano approssimativamente nel numero di sillabe e il continuo cangiare di larghezza d’onda, misura di verso, è voluto, calcolato e non afferrabile. La più sorprendente dote di questo poeta antico-moderno è la sua ricchezza violenta nella metafora, sempre azzardata. A volte parrebbe che sperimenti in senso surrealistico, ma codesta tecnica è da lui ammaestrata e perfettamente superata, essendo sperimentata quanto altre tecniche di difficile analisi, ma varie e consce. Ad esempio della ricchezza metaforica dell’autore riporto alcune immagini dedicate al banale tema della luna, periodicamente presente nei versi, come prova di rinnovamento:

(da poesia 8)

«Ti siedi fra noi e sorridi; ma ora
è la piccola sfera di più di un anno
che ti rimanda alla rinfusa a quanto
leggera sai confusa in ogni tua parola»

(da poesia 11)

«E perché gioia possano avere altri
ora stai a vedere. Glauca
e rotonda preme la luna
la tua faccia rotonda e bruna,
una città scomparsa
sconosciuta di ossa
e la mano tua con furia».

(da poesia 14) 
«in ogni muscolo contratto, come il ritmo
del cadere delle veloci messi
del grano o il tono della voce
ch’era sulle trecce delle rocce
protesa verso una stella
e una luna che intravedeva
solo se stessa».

(da poesia 26)
«Tu eri glaciale
alla luna tagliente del suo tempo,
nel freddo sereno sempre intenso
sempre eguale».

(da poesia 29)
«perché a tarda era
non amava ardire tanto, cieca era una luna
coi pori falsi lievemente smossi,
dentro i suoi lineamenti…»

(da poesia 67)
«Tonda tanto spunta una luna
come un calcolo del cielo
diffusa nel mistero e come un piccolo viavai;
e, perché nulla di te si sappia, ora un battello
era, ora un cristallo di pace su una nave
sospinta sola sulla via dell’orlo
dove timida e trepida, tu vai».

(da poesia 80)
«Raccoglieva onde una curva che agile non era,
una risposta folle, e una luna
che avevi alle tue spalle».

(da poesia  85)
«Ma non ti frantumare. Pensa
a una luna, alla natura
come a tanti frammenti…»

(da poesia 102) 
«…silenzi
dei di e una patria non nuova
già vedi, rincorri glauca e rotonda
quando s’affaccia o tramonta una luna»

NOTE

1) Corrispondenza dal 1-8-1935 al 13-6-1936 e dal 3-11-1955 al 31-1-1956 dalle lettere a Carlo Betocchi-Melicuccà, Reggio Calabria 10-11-1935.
2) Dalla «Premessa» a «Parole nel Tempo» (1932-1935) – Campiglia d’Orcia Siena 1955.
3) Dalle lettere a Leonardo Sinisgalli – Campiglia d’Orcia, Siena 1955. Si riferisce a «Avvertimento al Lettore» di L. Sinisgalli che fu pubblicato come introduzione a «Come in Dittici»  dalle edizioni Maia, Siena 1956.
4) Dalla lettera a Leonardo Sinisgalli – Melicuccà, Reggio Calabria 1956.
5) Dalla lettera in forma di saggio, a Vittorio Sereni – Melicuccà, Reggio Calabria 1960.
5) bis Dalla lettera in forma di saggio, a Vittorio Sereni – Melicuccà, Reggio Calabria 1960;
6) Dalle lettere a Giuseppe Tedeschi – Melicuccà, Reggio Calabria 1960-1961.
7) Dalle lettere a Carlo Betocchi – Melicuccà, Reggio Calabria 10-11-1935.
8) Dalle lettere a Carlo Betocchi – Melicuccà, Reggio Calabria 31-1-1956.
9) Dalle lettere a Leonardo Sinisgalli – Melicuccà, Reggio Calabria 1956-1960.
9) bis Dalle lettere a Leonardo Sinisgalli – Melicuccà, Reggio Calabria 1956-1960.
10) Dalle lettere in forma di saggio a Vittorio Sereni – Melicuccà, Reggio Calabria 1960.
11) Dalle lettere a Giuseppe Tedeschi – Melicuccà, Reggio Calabria 1960-1961.
12) Dalle lettere a Carlo Betocchi – Melicuccà, Reggio Calabria 13-6-1936.
13) Dalle lettere a Giuseppe Tedeschi – Melicuccà, Reggio Calabria 1960-1961.
14) Nel novembre su  «Frontespizio» esce un articolo di Carlo Betocchi che introduce il giovane poeta esemplificando tramite ben quattro poesie tratte da «Parole nel Tempo», il suo testo benevolente.

bibliografia
Lettera-saggio a Vittorio Sereni

LA PROSA DI LORENZO CALOGERO

Lettera-saggio a Vittorio Sereni, in La Provincia di Catanzaro, 1983, pag. 96

 

 

Soprattutto negli anni Cinquanta, Calogero era solito alternare, nei suoi quaderni di scolaro in cui scriveva di tutto con una penna non stilografica ma con una semplice asticella dotata di pennino, poesie e prose in una sorta di diario perpetuo. Si tratta di una prosa interessante. Amelia Rosselli, che ne è estimatrice, l’apprezza per la sua complessità. Complessità che ha la stessa radice della poesia, perché Calogero è sempre al di qua della poesia, al di qua della prosa: voglio dire che in lui segno e senso non coincidono. Un uguale complessità era in Lautréamont e Artaud; come Artaud e Lautréamont anche Calogero doveva essere convinto che sarebbe venuto il tempo della poesia fatta da tutti; come Artaud e Lautréamont, anche Calogero preferiva viverla la poesia prima di farla.
L’eventuale sua pubblicazione e pubblicità era sempre un di più per quest’uomo estremamente felice sino a quando glielo hanno consentito. In ogni modo prima di arrivare ad una stesura definitiva, egli impiegava diverse stesure e, anche in quella definitiva, si accaniva ad inseguire l’impossibile aver luogo del linguaggio. Con questi presupposti è inutile bussare alle porte di Einaudi, Mondadori, Rizzoli o Garzanti. Nessuno di loro – e per loro gli addetti – rischierà mai sul nome di Calogero. Se qualcosa verrà, bisogna attendere qualche Editore francese o inglese.
Solo a costoro ci si poteva rivolgere perché in questi Paesi non sono esistiti Petrarca, Bembo, Monti e D’annunzio, Soffici e Papini. Siamo in grado di fornire un saggio di una lettera di Calogero a uno degli addetti ai lavori per le «grandi» Editrici italiane, sicuramente Vittorio Sereni, persona, tra l’altro, umanissima. Si tratta di una lettera che è, in sostanza, il suo manifesto e la sua poetica. Noi ne riproduciamo solo una parte:

25-10-1960
Illustre Scrittore,
Le invio due mie raccolte di versi, che Ella forse giudicherà un po’ voluminose, ma la voluminosità o meno, come non dovrebbe costituire alcun motivo sufficiente od insufficiente per la pubblicabilità di un’opera, alla stessa maniera come esistono poesie brevissime e, talora, di un solo verso o abbastanza lunghe e tuttavia degne di particolare menzione, così mi auguro che non sia motivo sufficiente od insufficiente per stabilire della validità di un valore puramente umano (non dirò umanistico perché non sono stato mai un umanista vero e proprio, né saprei dare sufficiente valore a tale parola se non nel senso di ciò che si può intendere ed interpretare, facilmente, nel senso dell’umano). Circa quel tale senso di prolissità di cui si accorgerà nelle mie due raccolte, oltre al fatto che, per miei motivi, lo ritengo quasi ineliminabile, Le ricordo un giudizio di Leonardo Sinisgalli in cui, in un suo «Avvertimento al lettore» ad uno dei tre miei libri di poesia pubblicati da me fino ad ora, fra l’altro, dice chiaramente, che avendo avuto l’intenzione di stralciare alcuni miei versi, ha avuto la sensazione che ciò non poteva senza che facesse perdere significato e valore all’espressione che poteva conservarsi solo dentro il contesto del discorso poetico e non al di là di esso.
Estendendo tale, giudizio alle raccolte che Le invio, io direi che non si potrebbe privare la suggestività che potrebbe promanare dalla mia opera poetica, senza quella certa prolissità onde è intere
ssata.
In una delle mie opere troverà la data entro cui fu scritta e anche il luogo: converrà conservarle od eliminarli? Mi atterrei a questo riguardo al suo giudizio e non tenterei in alcun modo di modificarlo. L’altra è stata scritta, almeno, due anni prima ed in condizioni più favorevoli per le esercitazioni stilistiche (non credo, tuttavia, che le esercitazioni stilistiche siano da intendersi nel significato più antico e tradizionale della parola). Più o meno ogni poesia, ogni esercitazione stilistica pura e semplice, ammesso anche che tale espressione possa intendersi nel senso più tradizionale e più puro, involge un contenuto di pensiero, rimarcabile, solo, dentro una specializzazione che assume il linguaggio, o almeno un determinato linguaggio, e che comprende in sé un contenuto completamente nuovo, o almeno con un certo grado di novità, rispetto al contenuto proprio che si attribuisce alla vita, globalmente intesa, ed alle sue manifestazioni, che abbiano, almeno nel senso etico ed in ciò che eticamente si lega ad esse, il loro principio, come anche in ciò che la vita, eticamente, ed a quanto in essa si lega, più o meno direttamente ad un certo principio etico, propone continuamente eticamente all’uomo.
Se, in certo senso mi fosse lecito esprimermi con un linguaggio che avesse del filosofico, direi che la poesia rappresenta un prodotto della qualità pensante dell’uomo che (nei casi, cioè, in cui, già, la soglia dell’espressività, entro la quale, più o meno, essa poesia si realizza, è, in certo qual modo, significativa) è autocosciente ed anche, in taluni casi, più autocosciente di quanto sia l’autocoscienza ammessa dai filosofi alla vera ed effettiva filosofia. In questa l’autocoscienza sarebbe raggiunta per via logica che non sempre è in immediata relazione all’immediatezza dell’espressività. Questa che costituirebbe l’elemento più semplice e più basilare di qualsiasi prodotto della mente umana che tenderebbe a costituirsi in valore poetico, dà attraverso la poesia che di volta in volta realizza un accorgimento rapido e comprensivo della vita, così immanente alla coscienza umana, per quel tanto di immanenza che di ogni prodotto della coscienza possiamo, più o meno, per via logica, giustificare, che almeno, rispetto alla vita ed ai possibili valori effettivamente afferrabili come valori di vita, la vera ed effettiva autocoscienza è, per quel tanto che essa può essere tale un requisito, piuttosto, della poesia che non della filosofia. Per potere avere un diverso concetto dell’autocoscienza da quello da me espresso si dovrebbe far coincidere la filosofia o poesia, come si voglia, prima, con la storia e questa ritenerla perenne e permanente.
Da un lato io sono proclive a far coincidere poesia o filosofia con la storia, e questa ritengo perenne e permanente, sì che ogni attimo di vita abbia almeno il suo granellino di verità; ed in secondo luogo so che la funzione poeticizzante o filosofizzante o storicizzante hanno inizio, per il cultore di lettere, ed in ogni caso per lo scrittore, a partire dal segno scritto, che come, non rappresenta e non rappresenterà mai, intera, la vita, è, tuttavia, un elemento straordinariamente del tutto incalcolabile per i valori che esprime, ed indefinibile, e anche un elemento quasi del tutto infinitesimale almeno, come si è detto, rispetto alla vita ed ai valori che essa rappresenta, a partire da tutti i mezzi umanamente utilizzabili. Solo chi considerasse, l’espressività come la sola forza dell’universo e vivesse in essa negandosi a tutte le altre forme della natura e della vita potrebbe avere un significato del tutto pieno e completo, dell’espressività già come forma di vita, rispetto, anche, a tutte le altre possibili forme. Ma questo implicherebbe che si vivesse in una regione del tutto assoluta, mentre si sa che la vita, e, meglio, tutte le forme di vita, accadono e si succedono nel relativo.
Tuttavia, perché sappia quale sia il concetto che attribuisco all’autocoscienza, determinata attraverso il linguaggio, ed alla specializzazione del linguaggio, che contiene già sottintesi tutti i messi logici, e che appartiene più a quel che si suole definire come poesia, piuttosto che come filosofia, Le dirò che, partendo dalla semplice espressività, quale forma di immediatezza che accade dentro il tessuto della vita e di questa conserva tutta la potenza di suggestione sia di contenuto proprio da attribuire alla vita e d’astrattezza assoluta del pensiero o, semplicemente, in via di diventare tale, entrambi non sono mai raggiungibili, né mai ugualmente raggiungibili, nemmeno dentro un determinato attimo, (la vita della coscienza rispetto alla vita come ai prodotti puri del pensiero si manifesta e presenta perennemente oscillante) per cui di autocoscienza vera e propria non è mai il caso di parlare.
Che la poesia, prendendo già come punto di riferimento la vita, rappresenti un più di autocoscienza, rispetto a quello che suol definirsi filosofia l’ho già detto su. Di ciò ne farebbe fede la maggiore specializzazione del linguaggio, più forte in poesia che in filosofia, specializzazione che contiene sottintesi e tacitamente presenti tutti i nessi logici, attraverso cui si realizza il discorso.
La maggiore immediatezza dell’espressività in nesso diretto col segno scritto, senza il quale non è possibile ridurre nella più giusta ed esatta proporzione, entro i limiti di un fenomeno culturale comunicabile, colla maggiore chiarezza possibile, alla più grande maggioranza di persone, sia un tratto accaduto nell’interno della coscienza o esteriormente a questa.
Va da se che gli oggetti della poesia più pura appartengono, dentro la più pura possibilità espressiva, ai fenomeni interni alla coscienza.
Scusi se mi permetto anche dirLe che ho trovato molto più poetici, oltre che più ricchi di pensiero, delle comuni poesie, almeno, alcuni brani delle più intense e ricche filosofie, il che indicherebbe, secondo me, anche, che ove la filosofia divenisse effettivo e continuo linguaggio poetico, garantirebbe oltre un modo straordinariamente suggestivo di comunicazione con il comune lettore, di essere il prodotto più alto della mente umana contenente il massimo senso della verità.

(…)

Forse è bene che Le dica specificatamente qualche cosa della mia vita privata. Fino a quasi cinque anni fa ho avuto la possibilità di esercitare la professione di medico con cui riuscivo a procacciarmi da vivere e ad avere un’occupazione che rappresentava, anche, una specie di distrazione per la ineliminabile noia della vita. Negli ultimi tre anni sono vissuto quasi completamente in ozio, e, forzatamente, senza essermi potuto dedicare nemmeno ad opere poetiche o solo raramente e senza quella concentrazione mentale da cui è possibile il determinarsi di un particolare oggetto, che mettesse in evidenza una qualche possibilità che ci si possa inserire nella vita o che la vita s’inserisca in noi. Sono stato messo, via via, in questi tre anni in contatto ad una realtà sui generis. Mi sarebbero, a dir vero, occorsi pochissimi giorni per intendere quello, che avevo intuito sin dal primo giorno, ma che ho vissuto specificatamente nel tempo suggestivo.
Resteranno ancora parecchie cose che io non conosco e forse non conoscerò mai? E pure quello che ho appreso è veramente tanto, per cui il titolo che avevo pensato per un mio libro di poesie e che, dentro i miei limiti e le mie capacità poetiche, avrebbe dovuto essere quello «Città fantastica» intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa, mi sembra in qualche modo di averla vissuta in altro modo in quest’ultimo periodo della mia vita. Pensando a quel titolo e pensando alla possibilità di una espressività intercomunicante, che del resto non era affatto nelle mie capacità, pensavo anche «quasi» ad una città del tutto notturna, dove ogni punto di essa fosse in relazione e comunicante con tutti gli altri. Non ho mai pensato di dare alcuna rappresentazione di tale città, convinto anche, come sono, che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato, sia pure i margini di certi pensieri, o semplicemente di certe intenzioni poetiche, ma che si definiscono di volta in volta durante il lavoro rivolto alla pura ricerca espressiva. Oggi se, pubblicando un tale libro con tale titolo, credessi di poter o di dover insinuare ad una realtà di tale genere, so che farei, quasi di fronte a me stesso, cosa di pessimo gusto perché il libro non parlerebbe, prima di tutto, di una città fantastica di tal genere, che si affidava solo alla possibilità, tacitamente sottintesa in me, che potesse esistere una capacità espressiva (capacità ed anche possibilità che non erano mie, ma che ove si realizzassero avrebbero potuto dare una poesia di primissimo ordine) intercomunicanti fra tutti gli elementi attraverso i quali si esprime qualche cosa.
Le ho detto tanto più che per parlarLe delle mie cose e specialmente di certe mie cose poetiche, per farLe intendere un po’ quale tipo di realtà ho vissuto in quest’ultimo periodo.
Intanto, per altro verso, Le dovrò dire che sono già anziano, che non ho più intenzione di esercitare la professione di medico e che mi trovo nella imprescindibile necessità se vorrò ancora continuare a vivere e da crearmi una certa indipendenza, che sarebbe nient’altro che indipendenza a poter morire più o meno liberamente, purché Iddio non ci mandi una morte molto dolorosa, che ci costringerebbe in  modo assoluto, o quasi, alla dipendenza altrui  di trovarmi qualche lavoro di cui sia capace.
Scusi queste mie confessioni, questa lunghissima lettera a scopo di parlarLe, più che altro, della mia vocazione poetica, e se può La prego di aiutarmi.
Con i miei ringraziamenti anticipati per quanto Le sarà possibile fare, La prego di gradire i più deferenti e distinti ossequi.

Dev.mo Lorenzo Calogero, Melicuccà  (RC)

bibliografia

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