Poesie

25 Poesie
Poco Suono
Parole del Tempo
Ma questo...
Come in dittici
Avaro nel tuo pensiero
Sogno più non ricordo
Quaderni di villa Nuccia
25 Poesie

da 25 POESIE (1932-33)

 

FUGA DI PENSIERI

Fuga di pensieri lontana.
Mi percuote un’onda fugace
dentro una dolcezza non vana
di ultimi pensieri non miei,
segreti neri non veri angosciosi.

Quanto ho disperso mi guarda,
mi grida o mi sgrida. Lontano
mi risveglia in un grido e mi guida
sopra una riva,
nei teneri tuoi occhi,
perduta fuori di mano.

Ho perduto ciò che non sapevo
e custodivo gelosamente, quando angeli stanchi
sulla cima mossa dormente degli alberi
fredda non odono, nel freddo velo
buio scarno che spira
nella mattina secca a ponente.

Vieti pensieri, rapidi occhi
voi passaste e viveste un’ora sola.
Un sordo brivido svapora
dai miei sentimenti
nei tenui tuoi teneri occhi
dormenti.

PT 17

 

CIELO DI CENERE…

Cielo di cenere o sanguinoso
come una macchia di sangue,
timido o capriccioso
come anima che langue

aperta all’infinito.
Io vedo pensante
passare dentro un mito
nell’anima sognante

un sogno che s’avvera.
Un volto perduto in due mi guarda
tenue com’è una sfera
sfuggita che s’attarda

e che si riempie di dolore.
Misuro e traccio del volto
una forma angelica in amore
nel mio segreto sepolto.

Esser lo stesso per tutti continenti,
l’inchinarsi del moto cui soggiacciono
sempre i più lontani venti
è come un eremitaggio.

Sognare quel che si sogna di vela
in vela verso i confini dell’oceano
è come se sperduta nave anela
verso altezze cui le rive traggono.

Anche meraviglioso
è il cielo della vita.
L’istinto suo grandioso
vergine m’invita

verso una folata di vento
attinta a profondità abissali
per un nuovo combattimento
per nuove più fulgide ali.

PT 50

 

ANGELO DELLA MATTINA

Angelo della mattina
risvegliami ancora
per la nuova fulgente aurora
che s’arrossa sull’orizzonte o s’incrina.

Io sono uno strano mendicante
che chiede amore e parole,
sono un solitario emigrante
verso le terre della luce e del sole.

Vienimi coi tuoi fulgori,
angelo che non ristai,
coi tuoi infiniti fulgori
colle movenze che tu sai,

e crescimi delle meraviglie,
di quanto raccogli negli occhi neri,
degli infiniti misteri
che tu celi dentro l’arco dei cigli.

Fammi conoscere ciò che tu conosci
i riflessi della tua bocca chiara;
mutevolmente nel mio cuore già amara
è una musica una magica forma, in una pioggia che scrosci.

PT 59

 

bibliografia
Poco Suono

da POCO SUONO (1933-35)

 

POCO SUONO

Di tanto rovinoso mare
poco suono giunge
al mio orecchio assorto
in ascoltazione dell’Eterno
che come un angelo passa.

PT 67

 

FIGURE IMMAGINARIE

Figure immaginarie
che germina l’anima
per vederle partire
in un mare di sogno.

Siamo legati alla vita
da sottilissime vene
come ad un mare pauroso
che sempre abbuisce.

Ci levighiamo colla speranza sottile
di conoscere le cose a fondo,
di traghettare sulle nostre spalle
l’ombra della nostra morte
sull’altra riva

ed essere così
immutabili ed eterni
al livello desiderato.

PT 83

 

PARTO

Con passi lunghi e col ciglio aperto
faccio la scalinata grigia dei monti
per vedere nuovo bianchissimo orizzonte
come nel ciglio dell’anima s’e aperto.

L’immensità è quieta, dorme:
la trafugo dal dolore umano.
Sento la fuga dei rimpianti
vaticinare in fondo
nel chiuso d’una siepe.

Sono col piede chiuso alto sui monti.

Parto.

PT 85

 

ESSENZA DEL POETA

Sono il solitario origliere
di ciò che dorme.
Perciò scrivo
Colla tacita mano,
l’occhio rivolto ai sonni.

PT 96

 

PIANURA DELL’ANIMA

A cavallo vado,
scalpito per pianure oceaniche.
Non ho resistenza al vento.
Come una vela vado.
Dove cado, dove m’addormo.
Nelle pianure dell’anima
sempre sono:
per vasti estasiamenti
d’azzurro e cielo,
di veli e sogni
come labili nascimenti di spuma.

Sempre qua intorno scalpito
col mio focoso cavallo.

Sento il gracidio
della pioggia uraganica
anfrattuosa su per la ripa del monte.

PT 108

 

IMMENSITÀ BIANCA

Su le sfere
del ricordo m’elevo,
donde si vede
tutta l’immensità bianca
come un ricetto alpestre
fuggitivo
suadente
fra cadenti nevi.

PT 110

 

CANTO

Sale e le costellazioni
straripate
questo limpido verso
di nostalgie marine.
Lo ritroverò,
non lo ritroverò
lungo la lunga via
che mena agli indelibati riposi
dell’ultima ora?

Sarò l’ultimo individuo
remigante
dalla terra dei chiostri.

Debole armonia
si serra in petto.

PT 118

 

INNAMORAMENTO

Perduto
la bella aspettavo
nel bosco.

PT 119

 

PANORAMI GRANDISSIMI

Panorami grandissimi
a perdita d’occhio si stendono,
s’aprono nuovi orizzonti,
si squarciano gole.
Noi non sappiamo parlare.
Dove siamo andati a cadere?
Nel centro alluvionale della terra?
L’occhio vacua da orizzonte a orizzonte
e si spaura.
Per questo siamo nati:
per vedere nuovo profondissimo orizzonte,
perché la nostra generazione
non vada dispersa
fra acini, fondi nebulosi,
mostri furiosi, i cavalloni
del mare.

Lottiamo sottoterra
e percepiamo.

PT 122

 

VERITA’

Non sappiamo come chiamarti.
Gli eventi ti sussurrano in un modo,
ma lontano da noi tu sei
colle ali distese.

PT 127

 

LETTERE D’AMORE

Mandai lettere d’amore
ai cieli, ai venti, ai mari,
a tutte le dilagate
forme dell’universo.
Essi mi risposero
in una rugiadosa
lentezza d’amore
per cui riposai
su le arse cime frastagliate loro
come su una selva di vento.

Mi nacque un figlio dell’oceano.

PT 129

 

SILENZIO SACRO

Silenzio sacro.

Dalla riva alta dei fiumi
parla una voce,
scandisce un silenzio sacro
come il primo urlo
dei popoli feroci.

Il lene vento parla.
Una fronda si muove.
Un bue lento
la bianca anca sommuove.

Immagine statuaria
che migra dai monti
sono.

Verso quale nuova riva?
In cerca di quali perduti beni?

Ciò che ho creato
in ordine leggendario
si trova.

Aspetterò
la bianca spetrata notte:
verso quali segreti
millenni addurrà.

Tutto è bianco e opaco.

Che non abbia a inaridire
la mia anima
come la cenere del greto,
come la nebbia irta de’ colli.

Dall’aere dei colli
viene fosca, grigia
parvenza di numi.

Verso quali beati destini
mi chiama?

PT 142

 

bibliografia
Parole del Tempo

da PAROLE DEL TEMPO (1933-35)

 

LUNA

Luna
dall’infinita cecità dei monti
si sporge: risucchio,
richiamo di cose eterne
si rinnovano nella
labilità momentanea passeggera.
Uno spirito delicato
la tocca, non è il mio,
che tutto circonfonde.

PT 164

 

PAESAGGIO IMMOBILE SULL’ACQUE

Paesaggio immobile sull’acque.
Prima voce del richiamo
dei pastori attaccati
alla loro rozza creta
nell’eccelsa montagna.
Pascoli, paradisi inumai
si profilano ai miei occhi
che abbrividiscono.
Tutto è ingente pietra,
immobilità cristallizzata,
sopito sonno.

PT 165

 

TEMPIO

Tutti possono partecipare
alla formazione del tempio
che poggia su
archibalenanti archi di raggi.
Non sapranno le stelle,
non saprà il tempo donde nato,
formazione ciclopica dei secoli.
Dimora duratura dell’anima
sarà, degli antichi istinti sapienti
che facevano grandi cose
nell’estrema consapevolezza.
Su archi di raggi poserà
come addormito fiore,
che, su steli esilissimi giacente,
al celeste esulta,
alla spirante rosa dell’aria
che in tutti i porti,
silenziosa, lo porterà
verso le innumeri direzioni,
spingendolo verso tutte le bandiere.

PT 173

 

L’OPERA

L’opera
non cade mai,
non si frantuma,
rimane eterna.
Gioiosa o mesta,
entusiasta e molteplice,
rimanendo immutata
ai colpi del tempo,
è testimone
di un tempo immortale.

La sua nuda fronte
rimane ferma, soda
sotto i raggi del sole che l’indora
fra i pollici fissi dell’universo.

Da essa a volte cadono scintille
che indorano la bruna chioma
dei fanciulli che vanno a scuola
svegliandoli dal letargo
nel primo entusiasmo.

PT 179

 

TUTTO ERA CALMO SOLARE

Io mi ricordo dei tempi passati, antichi.
Tutto era accolto nel calmo
taciturno lento svolgersi delle stagioni,
nel regolare solare ciclo del giorno.
Tutto si muoveva lento quieto,
quasi senza un perché.
Ascoltavo la prima voce dei pastori
al limite dei tempi solitari,
finché non me la ritoglieva
la voce impetuosa del vento.
Camminavo per ridesti ridenti sentieri.
Là si fermava la prima
mia giovanile speranza.
Dentro quel chiuso sole
si muovevano i miei primi passi.
L’urlo delle passioni
non era ancora solitario entrato
nel cavo delle vene a scuotermi.

Tutto era calmo solare
come un giorno aperto.

PT 184

 

NOI NON SAPPIAMO

Noi non sappiamo da che anima nata
e sei da per tutto indifesa.

Io mi diffondo per obbliviosi porti    
ed imparo di te l’azzurro e il sereno.

PT 194

 

MOLTI FIORI…

Molti fiori, molte cose odorose
furono concesse a me
da montagne non mie,
pur quando era passato il tempo per riceverle.

Ora mi siedo in una valle ombrosa
presso una fonte
dell’amorosa campagna
e guardo con quale passo
intrattenibile, oscurando i rami
degli alberi, passa il tempo.

PT 212

bibliografia
Ma questo...

da MA QUESTO… (1950-54)

 

SI CONFONDE QUESTO MERAVIGLIOSO PLENILUNIO

Si confonde questo meraviglioso plenilunio.

Lo spazio concavo era
una meravigliosa uccelliera,
dove a un nido, ad un bacio ignorato
fluivano meravigliosi i fiumi,

di cui vedevamo la meraviglia da lungi
nel nostro silenzio ch’era fame.

OP II 7

 

RIDEVANO ALME LE CONVALLI

Ridevano alme le convalli
nel plenilunio ch’era morte.

Astri diafani giungevano
alle pietose grotte
mentre sull’erba tenera
ch’era per me domani
pascevano i cavalli
e più non mi ricordo;
poi che una donna snella venne,
s’assise sul margine dei fiumi
e incominciò a raccontarmi.

La terra di care forme
navigava incerta
nell’alba che divenne.

OP II 8

 

VERGINI IN PURO SONNO

Vergini in puro sonno ali oscillano.
Questo è lo schermo della luna.
L’esile lume giuoca sul tuo collo
come un’onda danzante e riverbera i disegni,
i segreti delle stagioni sui vapori
delle stelle come un’esigua acqua
che lascia schiuma.

Ritorna il bivacco
su la dardeggiante cruna
e la marea come un’alta cima
asciuga lo scirocco
sopra una ventata calda
di cenere bionda e bruna.

Si accende il disco
della candida faccia a raggi
della bianca implorante luna
ai passi dello sperduto viandante
che ha smarrito la strada.

Ali vergini di puro fumo in sonno
su lande solitarie oscillano, puri fiocchi
aperti ai tuoi sogni divengono.

OP II 23

 

STRANE CHIOME

Strane chiome e sostanze.
Odo un suono di corolle
alitanti nell’aria, chiudo gli occhi
e una strana danza le insegue.
Caddero su di esse stimmate paurose
come da una lana fine e bigia
in segreto. Un burrone coi suoi archi,
colle sue lampade acceso, i suoi sogni
infiniti sfiniti dette nel tempo.
Possiedono boccole e viole socchiuse
dardi senza tempo,
venuti su queste infinite aiuole
misteriose, come l’ombre dei re
che pazienti giocarono nell’aria
col sogno che ti aveva tutto rappreso.

Strane mura e un’infinita presenza
dileguano.

OP II 28

 

ABITI, SVOLAZZANTI CAPPELLI

Abiti, svolazzanti cappelli
e guanti portano e l’alito
di una canzone che batte in fronte
e il mesto bagliore degli occhi
trattiene; e se i venti
sono senza confine, ecco,
sulle tegole rosse, appaiono
leggere le muse; e cime
e città fantastica stanno con gioia,
ora che olio versa
da una vana lucerna una vana fanciulla
e paesi persi del tempo
in una luce che li smorza gemono
in una vana rincorsa.

OP II 32

 

ROSSO SANGUE

Rosso sangue un veliero
e muta l’orme. Repentinamente
il tuo sangue diviene scarlatto
su l’orlo de l’abisso, dov’era il papavero
e il fiore del girasole dorme,
per riprenderti prima e continuamente
non sai come. Misura il colletto
che sta sotto e insanguina il tuo nome
il caldo dove un seme
germina e si duole. La giubba
del soldato era rivestita di cenere
sempre. Vellica il seno
dell’estate l’effluvio che si leva
dai fossi infestati di rane
e una stilla di moribonda luce
batte il piede. Calme oasi e la borragine
il quieto appello odono,
che viene.

OP II 36

 

SILENZI VERGINI E IL CANTO MUTATO

Silenzi vergini e il canto mutato
senz’orme e questo vano agglomerarsi
delle colline che ti colpí come un grido,
un volo di rondine; e il fiume
è così enorme come una voce
in cui è vano specchiarsi. Dentro una voragine
tacito il tagliaboschi dritto
guarda e pei campi irrompe.
E un passo aereo si fa sempre più rado
passato a caso da un capo all’altro
in questo paese,
in un viottolo su e giù per le valli di confine.
Ecco ti porto un segno
intessuto sul tuo mantello
come fra tacite spire
tesse il ragno e il suo richiamo
è un fantasma dolce a seguire.

OP II 40


ZEFIRO AUTUNNALE

Zefiro autunnale. Schiudersi. Intirizzita
è la materia come il soffio che spira.
Sono miracoli ardui ceruli diradati
i merli sopra le colonne
e lucciole scivolano leggere
sul viso gentile delle donne.

Felice novita! Spicca il volo aereo
sereno senza confine il sonno dell’aldilà
e sono presaghe le nubi sopra le colombe.
Appassita flora dei segni dei giardini.
Duri lembi di ali
e le movenze intrecciate
come archi di vimini
sui davanzali involgono di ora in ora
e un corpo grave e biondo affiora.
Gioie senza voglie nella penombra affacciate
sul viso delle donne appaiono
nell’unico sorriso che il sonno della morte
pensosa talvolta addolora.

OP II 46

 

ASSIDUE, COME GEMME PURE

Assidue, come gemme pure,
lagrime dileguano. Aduna
il chiarore sul terreno di sterpi
stretto, folto come una boscaglia, la volpe
che uno screzio d’oro estenua e abbaglia
al filo tagliente della luna, ed occhi

ti hanno guardato in faccia
perché l’opera risplende. Divelta
a una fontana è un po’ di acqua fatua
vana e sono arsi gli spazi
esili dei colli, grigie le foglie
nell’aria che s’allontana. Timide,
sparse di sudore gelido le soglie,
l’arcuato vivere il sudato specchio
umido raccoglie, la morte in cui ti specchi.
Falsa la riga veloce il tornio
e quanto la volontà di vivere
di crescere tarda è a rispondere
vedi umida nei secchi.

OP II 48

 

E RACCONTI

E racconti, ma il viavai
va e viene. Sono corpi morti
qua a terra seduti. Si rompono
in dialetto una violetta, una lontana
statua viola perdute insieme
altrove. Ma sono rosso sangue le tempie.

OP II 54

 

E LA TRAMA

E la trama tesse gli sterili dí.
Ma tu irremovibile ombra
con pena, sulla curva seduta,
dove si sporge una luna falcata,
tu i distici, l’inamovibile catena
spegni e con calma. Oggi una palma
poggia ogni uomo in ombra
irresoluto. La spiga, la taciturna
lontana orma del gregge chiama
un saluto. E il poetico struzzo,
la quiete che s’allarga dall’aldilà
o com’edera scabra ai margini d’un sogno
(ma tu non chiedere oltre la sposa
ch’era stata sognata per te!)
raggi di fili arborei, di nidi
occidui perduti nel bosco divengono.

OP II 57

 

MA QUESTO

Gli estri, le cose esatte,
le monotone cose poi, ma questo
puoi estendere alle nuvole,
quando, rarefatto il tempo, il vuoto
è un rudere di passaggio.

OP II 78

 

GUARDA A LATO

Guarda a lato. Non più risuona
il plinto giallo. S’inacerba
il rumore non più giovane.
Non giova più sull’erba la memore
dipinta lapide di cristallo.

A partire da qui non più lenta
sonora scorre l’origine
ad alta voce o la cima
e si sfogliano i giacinti.

Tu giungi! L’ora veloce,
l’odore a stella, queste piccole
idee come un talismano
nelle isole e lo stretto necessario
cadono.
Marcisce un flauto
alla fine debole di un anno,
il riso del seno nell’ala vorace
al brusco secco tonfo del tempo
dell’aria abbassata.

Ieri come oggi sonnolente
anella erano e, nel viso sparso
secco confuso, la fine aerea
ferma di un’altra giornata.

OP II 96

 

D’ALI NUVOLA

D’ali nuvola, capricciosa volta
d’anni lunga lugubre leggera;
ed era un bene. Passò
dal fiore d’ombra
il lume pallido
sul volo di una mosca.

Non so quale notte plumbea
la chiara voce ascolta
nei dì veloci e pieni.

Un angolo sul filare passeri
bisbigliò. Ancora una luce
rosea dondola nel vespero
un’aria solitaria densa sull’arancia
o non so che voglia.

Tinta di fitti veli nube odorosa
da una mano dimessa vaporò
gentile su una guancia.

OP II 106

 

SE BIANCO UDIVI

Se bianco udivi ora vedi. Non più!
Misteriosamente due a due
caddero come si volsero bruni volti
i soli. E virilmente
come giù e giù acqua limpida
nel fondo da se stessa si strappa
da te io mi nascondo. Lambiva
la tua vita incerta una veste
inutilmente, una cara gioia nel folto
nuda voce uno scoglio.

Verdi iridi vende in un soffio
una nube a primavera
su una tempesta subitamente
rapida partendo.

Erano i rigori chiusi del ruscello
un caro coro di segni schiusi
per sempre, un tenue casto canto
di pioppi sui poggi del fringuello.

OP II 113

 

SE PER POCO ODO

Se per poco odo e tolgo a la voce
non mi resta che un’immagine
per finire. Fu scaturigine
quieta la tua vita come acqua,
così partecipe esigua la spiegazione.
Il taciturno lento svolgersi delle stagioni
ti si addice. Non so in quale artefatto
rarefatto moto dei monti o pressoché simile
umile era fatto alle origini. Pure potevano
svilupparsi il silenzio, una migrazione
gelida, un puro spazio
in pure pause di ombre.
Uguale lievita e riecheggia la brezza
e risponde. Il mattino sul colle inclemente
era la causa dei sogni.

OP II 139

 

bibliografia
Come in dittici

da COME IN DITTICI (1954-56)

 

RIMANE FRA ME E TE

Rimane fra me e te questa sera
un dialogo come questo angelo
a volte bruno in dormiveglia
sul fianco. Non ti domando
né questo o quello, né come
da materne lacrime si risveglia
di notte il tuo pianto.

Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.

Non l’eco rimbalza
due volte sulle rocce, su questo
prato, ove sono rosse, e, di rosso
in rosso, è vano il pallido velluto
ora rosa ora smosso.

Non si parla né triste né lieto;
e presto o tardi, perché a fior di labbro
gentilmente nel filo tenue dell’erba
tristemente lacerando si risveglia
la tua sera accanto, dolcemente
io ti domando.

OP I 3

 

A MOLTEPLICI SUONI

A molteplici suoni, mutate le penne
le vene d’aria, così chiara
avanza, da tempo, sul tempo della gioia
una chioma d’alberi varia. La cortina
è del sonno. Un atomo è il silenzio,
atona un’ignota rimembranza e, domani,
non più nuova – sensitivo! – guarda
nello splendente fulgore
la tua stessa aria. Un ghirigoro
cupo è il tuo corpo, il tuo grido
che passa, ignota (a gruppi uguali
verrà il suono) un’ala di un’isola
e, riesumando intorno, un cielo
già plumbeo. Intera
rianimata s’addentra un’ombra amata
e stanca nella stessa sfera
e ti rimanda al giorno opaco
del suo spesso regno.
Cadono a terra mutilate clemenze
al suo piede e sul fianco (la turbolenta
onda s’addensa) la spiaggia avara
solitaria a settembre, la distesa
violacea, un punto assiduo
ombroso del fluire cui si soffermino
chiari i tuoi passi
turbinosi come la febbre
e, perché non siano di noia
grigi gli inizi, i viali altocinti.
Ora so a memoria i suoni
nel cerchio che agevolmente sgorga.
Volenterose turbe s’alternano.
L’eco non sa parlare così triste!
fermamente si sdoppia e ti sorprende.
L’eco non sa parlare, così triste!
è giunta alla sua fine
e ti opprime gelida tanto. Dentro lo scheletro
nuda è la sua gola.
Hai gustato mentalmente
la velleità delle cose, dell’erba arida
mutevolmente rapidi i frammenti.

Sai quanta infanzia
era uno screzio. Ritorna allodola.
La vena non è più nuda, non e più sola,
non più s’affolla allo stesso piede.
Chiusa nube odorosa sul tardi
era uno screzio. Ritorna allodola
incostantemente nel verde intrico dei rami
e dalla pioggia
si difende.
Cosi bruca, a volte,
tristemente filtrando fili di raggi
solitari il sole cui si soffermi già una cima.
S’affina in mutate vicende, in lievi
fievoli aliti freddi.
Mutevole
ha su immense acque ed ali
distesa l’immensità dei monti,
ferma, una linea.

OP I 5

 

SE GUARDO E MI VOLGO ATTORNO

Se guardo e mi volgo attorno
non era volontà di prendere
presagio. Subito mi piega,
linea timida, un tuo bacio.
Una novità era rendere
al plenilunio che nascondo
silenzio fatto rami, intricati
nel profondo, e, di ramo
in ramo, le foglie nelle mani,
una pallida guancia
o una palpebra già lieve
sulla punta delle dita
che timida scolori.
Imparo cosí
di fronte ad una fievole luce chino
il fievole declino del silenzio
della vita.

OP I 7

 

ESTESI MUTAMENTI

Estesi mutamenti nel tempo
avvengono. Scivolano dentro
una merea di larve, da una luce calma uguale,
nel sonno del sangue tuo nascosto.

Illimpido il pensiero
è ora frutto prossimo e colto.
Similmente alle oasi scomparivano
un desiderio avvilente
o uno proprio e celeste.
Ad una curva avviata
era l’ora del giorno. Sul campanile
serrata era stanca e curva una favola.

Caduta mortalmente,
solennemente accesa,
trepidi i ginocchi, l’anima prigioniera
ritrovava se stessa, distesa
lungo i fiumi, e il suo corpo.

Ripromettevano i giorni
un sopore ch’erompe la scorza.
Il ginepro è un’enigma felice poi.
Si smorza il calore degli alberi
e quello pallido ripetuto del cielo,
ch’ebbe a caso, nel colore intenso,
diverso più mite il suo corso.

OP I 17

 

PERPENDICOLARMENTE A VUOTO

Perpendicolarmente a vuoto
tracce erano, limiti, e da questa parte
il vento, in prati ove non si odono
cose di cui non mi ricordo;
e sai quanto noioso un ramo
era e mi guida e dall’aria
mi divide che non amo. Più non riconosco
una larvata presenza di essere,
un’usanza di crescere e non basta:
se mi soffermo un poco un soffio
era già troppo e il resto. Sinuoso
e sveglio un vano respiro d’albero
corrompe me pure in una dolcezza varia.
Una levigatezza che apparve nello spazio
soffre il vuoto, il disordine, il discendere
dell’età morente. Un alito ricrebbe nella guazza.

I sottintesi richiami un respiro d’aria,
una solitudine già odono.

Nella nebbia, per quanto so
ora, come in questa, è partita
la tua presenza dalla grazia
come la sofferenza dalla veglia
del suo volo.

OP I 31

 

SOGNI

Sogni. La speranza del tempo
che fugge innamora. Il tepore
è una promessa non nuova. Fuggi!
La chiara atona scorza di alberi
al supplice colora una cara curva
di ignote distanze, una chiara
corsa di curve nel sole. Ritorna!
Odi l’unica voce che non si frantuma
scritta a caratteri grandi
dentro un’antica dimora (a valle
è la notte, la morte già angelica
e bruna). Contratta, esatta
monotona e scura mentre ti scrivo ti sfiora.
Remota immota tramonta la luna!
Un tenue rivolo scivola, trema mesta
una luce alla gola. Non so che spiraglio
che fievole linea agevolmente rada,
te morta, una siepe, la sete delle chiome
d’aria già bruna che varia.

OP I 39

 

IO VEDO L’IMMAGINE

Io vedo l’immagine e l’intento
assiduo. Non so se dentro
era una sfera o il vento. Da queste parti
perde coi suoi blu occhi finti
ai piedi il monte un fiotto
che tu calpesti. Lacera
una voragine un messaggio era di sangue,
una pietra era di estinti. Lo stradale
era incline al margine. Era arduo
un ordine e, sebbene le pendici
appartenevano ad una chiostra uguale,
lo scoppio di una stella era maggiore.
Di seta finta la terra saliva
erma a una festa aerea di baci
in un lume di opaco desiderio
cinta. Dentro un alone
spirava il calore.

OP I 84

 

SE ANCORA RINASCESSE A VALLE

Se ancora rinascesse a valle
un nuovo flutto e sulle vele
un nuovo colore, un nuovo respiro
di essere, non so più quale sia l’orbita
che risalga feconda e circondi
sul verde una fronda o palesi
entro una gioia la povertà compiaciuta
di essere negli anni una prova.

Su mutevoli abissi un raggio
una chioma era, te curva, calda mutata in una volta.
Un mantello è una foglia.
La bontà è sorella carnosa del monte.
Ma poteva pure non essere così.

E sebbene la voce non ha che un suono,
la nudità non era tua, non era
che il ritmo di un moto. Un mondo nudo
era partecipe di un modo. Anch’io
non ricordo. Sono un altro
e ridico di un satellite squallido
senza nome da la castità,
lievissima e, tacitando alacri
le tue risposte, di un’amalgama
soffice: le tue parole
un mesto fiato hanno d’alba
simile alla morte. Così, dolce,
ti consigliano un recuperato affanno
un più o meno disperato ritorno
nel cielo glauco, la sola felice
novità di essere un altro o non essere
nell’ora grave del medesimo giorno,
la sola voce antichissima dell’essere
che nasconde la realtà del tuo sogno.

OP I 115

 

PAROLE

Parole odono una risposta
dall’alto. Qualcosa manca
ad una giusta via. Piega
da un viottolo freddo un pigro
filo verde sul labbro. Trepida
una foglia era. Un tetto sboccia
da una sagoma di un tenue
filo di paglia. Una figura era
gia di cristallo.
Mite so la lentezza: non concede
più giovani i giorni, non corrode
più come ieri nel fiato freddo
finto dell’alba i tramonti.

Non più lieve è l’aria residua. Si spoglia
con gloria un’ala occidua e modesta
ai raggi del sole nella sete che resta.
Da rami azzurri udivi
ferma la distanza sulle gote,
come un dí rinasca una foglia.

Io so che non lieta più vai,
e, perché sei affine al tuo sonno,
geme nella levigatezza
la bellezza che ha reso di sensi
più acuti ed invisibili segni
odoroso il ritorno.
O è un ritardo scabro umido,
una pena antichissima di cose
immerse con furia dentro una linea.

Inclemente la neve sui passeri
sboccia dai freddi marmi alle mani.

Su assurde cime su sentieri ove vai
si assume con gioia di essere altrove
dalle marine nei tuoi stessi pensieri
sui rami.

OP I 119

 

SE UNA PIEGA…

Se una piega dinoccola nel folto
non tanto alta era la quiete
soave della sera. Una pigna ora cade che ti sfiora.
Dalla gota ad un volubile
suo segno trepida era
la vena glauca del tuo collo.
Non più s’appanna un labile rivo:
l’ombra sua sognando cade blu
rapida dal cielo o s’addensa abbagliante
sopra un volto.
O sconosciuta tu sei
ferma in un ritmo, rotto l’indugio.

L’incauto incanto cede,
l’immagine rivive in ascolto,
e, purché simile a te l’ora sia, era cresciuta
con noi la tua gioia o si smaga
in un diletto vana del tutto.

Vane non vere cadevano cupe
a ridosso le foglie.
Ardevano immense
ali di baleni sulle tue labbra
le ultime verdi righe blu del trifoglio.

OP I 137

 

GELIDE PARVENZE

Gelide parvenze, la vita acre dei segni
conosco. Non è finito lo spazio.
Io mi corrompo. Non so l’aurora quale il ladro
del tempo rapido senza scampo. È murmure
il suo sonno a una risposta a sommo
di una tomba nascosta che ti trasporta,
e, di trasporto in trasporto, è il suono
dell’essere felice, gioia non tersa
calma nel suo fondo. E se nel suo velo
un corpo dietro un passo senza peso
vede, triste io ti domando. I cieli
sono sciupati, emersi dentro un raggio.
Nell’isola che li contiene
è una rondine felice.

OP I 159

 

I SEGNI, LE TURBE, LE FIUMANE

I segni, le turbe, le fiumane,
le ondate rapide i fianchi bianchi
e opimi deboli entro quel paese leggero
duttile, sottile come un antro
ricordano te sola di cui non ricordo
il nome. Non valeva più
essere da te diverso perché da me
ti affranca il punto grigio
dello stesso centro.

La vitalità era dell’ora
squallida nel cielo in quel puro
opaco specchio bruno cinto
dello spazio, quando non si sa
in quali zone grigie mutata in aria
sia, in quali cavi curvi d’ombra esatta
batta mobile su una spalla
leggera la tua guancia.

Un vago argenteo riflesso
non è più sul labbro
ed io non so che sia
e ritorno confuso nell’interno
da uno sbaglio; e, benché ti voglia dire,
terre ed acque tremano glauche e sole,
indugiano o premono al tuo corpo
un girasole e me travolgono al tuo fianco,
o è un lontano sorriso timido
confuso di parole.

OP I 178

 

COME IN DITTICI

Quando da l’albatro strano ad una lucida
scintilla dei crepuscoli eri un’idea
non più vicina, non più t’ascolto.
Una fuga di uccelli eri chiara nel folto,
d’alberi una china, un esiguo
fiorito stormo di occhi nel volto.
Fievole una gioia lentamente inclina
al fiore del limone e pigramente
a una favola.

So. Non altro eri tu chiamata
che una corolla negli orti del tempo
nel tempo del tuo riposo. La fuggevole
aria abbraccia sul labbro tuo mutevole
lo spazio che non ebbe mai un colore
o lo distingue da esso o è lontano
da te o è curioso.
Guardi
la serena essenza senza fine
o è rotta la voce cupa del tuo tempo,
a sommo rivolta, esatta,
ratta veloce nel senso del tuo sonno.

Tacita una salsedine si risveglia
o esala una marea. Declina
una notte mite fredda
lucida e la tramontana poi.
Se le monotone cose vuoi
la morte come una sera negli occhi
ti è sorella carnosa e vicina.
Altri tempi
non puoi implorare.
Come in dittici
antichi autentici disgiunge
la tua gioia il calore
dell’ultima brina.

OP I 217

 

VANA A TUTTI

Vana a tutti nel modo di essere,
a riprova, riposa quieta
questa sopita inerte inintelligenza che era sul volto;
e, per essere nuova e non vera,
ora ode e indistintamente.
Lieve curva, porosa
passa una foglia
dall’unghia rosea umida sull’orlo.
Cava e inutile inavvertitamente
ritrovi, dentro un poro o un passero,
una pura costellazione. In alto naviga
rudimentale un’ala o un polso.
Non è concesso nulla o una dolcezza,
una dopo l’altra, e non posso più muovermi.
Ora so. Guardo te stessa fraintesa
su l’altra faccia distesa de l’orizzonte
tremulo e discosto. O è passata
distrattamente una ruga,
una piega fievole mutevolmente
sola nel vortice del sonno
lungi da te, da me, nel senso
del tempo più mite,
nel corso più sereno e accosto.

 

bibliografia
Avaro nel tuo pensiero

da AVARO NEL TUO PENSIERO (1955)

 

AVARO NEL TUO PENSIERO

Se, da diverse parti, sottintesi i segni
divengono quel che sogni e non sai
più quale curva lena sia rosea una linea
tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella
e, senza percorso, più sopra un pensiero
ti sporgi nella medesima ora
che improvvisa si rinovella
e ti dette le nudità del sogno,

l’anima sempre uguale era senza mistero
o l’anima puoi perdere alle radici
o la semplice nudità era un assolo.

Ma perché da parti uguali erme divise
non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri
sopra i tuoi fiori nella medesima aridità che ora scintilla essa balena
e ti accorgi di essere più solo.
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.

Erme cinte di cose
appaiono già tutte le rose.

ATP 

 

RICORDO COSA FOSSE SIMILE ALLA RUOTA

Ricordo cosa fosse simile alla ruota
e sebbene non più ricca
quanto nei raggi suoi era lievemente smossa,
era già vera una giornata timida
indifesa.
Era vera l’opaca
sua umile origene.
Una festa
appariva già dentro una stella.

ATP

 

A RILENTO LE STESSE SOSTANZE

A rilento le stesse sostanze
vedi. Non è mancanza di sole
la luce che vien meno, la calma piena, il bosco,
una gocciola, una luce, una casa,
la cara sembianza di persone morte,
com’è solido il sapore, il frutto del limone
e in altro giorno attiguo il tuo gelido sopore.
Sopra le ossa, su le medesime cose
è opaco assiduo, in un fiore,
deserto il batticuore.

ATP

 

NON POSSO DISSUADERMI ANCH’IO

Non posso dissuadermi anch’io
se anch’io ripenso. Un passo lugubre
sul corpo, una cometa erano
e purché la gioia non sia sempre quieta
tenuta con furia, più porosa
di una vetta d’aria tumida
che costa troppo non poteva più essere.
Dentro una gabbia sul selciato parlo
e numero le ore del mio giorno.
Ripopolo il tempo mio con ombre
stanche e parlo da solo o mi corrompo
in un gruppo fragile e dissimulo,
perché le vene tumide dell’aria
erano una porta viscida che non più risponde
e, salvata in alto un’altra volta,
era da un’altra vetta che va più in alto
e che non varia.

ATP

 

SE PASSIBILE L’ECO

Se passibile l’eco ai confini
era invisibile segno e straniero,
dubitato da sempre, passo anch’io
dentro una lievità ombrosa, carnosa
canora rara di linee.

ATP

SAPEVI ADDORMENTARTI

Sapevi addormentarti anche
nella grande ala dei morti
dentro un antico desiderio e, sebbene
rimormoro in umili bende la sete della saluta morbida
della giovanile
potenza ch’ebbe una volta la terra
sospesa o tetra o azzurra, arida

ch’ebbe essa un giorno dentro una favola
era un sospiro povero, supino,
spesso voluttuoso che accade
nell’immensità umida, spesso declina
o già si accende.

Sono persuasive le tue parole
dentro un ordine falso, ora anche
un dolore dentro uno scheletro
esatto che presto se stesso, non per molto,
riprende quanto non sapevo più dire
o un tulipano carnoso vivido di fiori,
umida una sera, che spesso, lievemente
smossa la brezza del vento
risplende.
Non so più se fu più laborioso
il caso di farmi sapere nocivo,
quanto fu per me il caso
di non essere vivo nell’opacità distesa
tenue della terra.
La tenuità stessa dell’ora
da sola nell’aria sempre già ti attende.

Il transito dei fiori dall’ombra
alla penombra sempre s’avvera.
Non è più rosea, né bruna una selva.
Ma questo é casto. Un canto che ti cinge
vorticosamente in due, separatamente
nel tramonto sdoppia fermamente
la tua sera.

Forse non ricordo più nulla
di quanto era vivo e disperatamente
vivido accende entro un ordine curvo
sopra acque la strana sua lievità
morente.
Mi piacque nel sordo
rivolo il ruvido ricordo nel canto
della materia che pareva plumbeo.

Il volo del pensiero pareva nascere
per essere più solo.

Comunque come compenso ebbi acque
e in abbondanza.
Non nego ciò che pareva
per essere più povero.
Sempre odo
per avere avuta la stessa vita
remota in dono, simile a me stesso,
da uno che sembrava per essere già in volo.

ATP

bibliografia
 
Sogno più non ricordo

da SOGNO PIÙ NON RICORDO (1956-58)

 

ESITA QUALCUNO DI QUESTI FILI

Esita qualcuno di questi fili
d’aria sospesi quando sulla rada
assolata foglie tristi d’ombra
sparge l’autunno.
La morte
ti si addice così bene
come se, dietro la vetrata glabra
delle cose, a parlarci,
stesse col suo viso povero
il viso povero
di ognuno.

OP II 154

 

AD OTTUAGENARIO

Ad ottuagenario ripete il sole
le radici, la sua astinenza,
e per quel suo colore pallido,
quando le nubi radono
dal cielo la terra,
e più non si ode voce nuda
soffice dell’inverno.

Il pianto a marzo era già tardo,
un vero strazio che incolonna
le nubi e le pendici.

La volontà ripiega
e subito il panico e il rossore
sono il segno felice sui sentieri
d’un sogno glauco che non dura.

Inviolabili clemenze orme sono
presaghe, e, stanche, si spandono nel canto.
Raccoglie vivide onde l’ora
pura dell’aria sopra le viole
e, dischiuse le gemme, te sola
accanto.

OP II 156

 

SO MA NON TROPPO

So, ma non troppo ormai più
di quanto era una volta una vera gioia.
Si tocca ora una fiaba.
Quanto di essa
una staccionata era nell’aria,
pure era la febbre.
S’intersecò nel cielo,
oltre te, un breve alito freddo,
un batter folle oltre la tua speranza.

Furono pelaghi sinuosamente smossi
le nebbie dove andavano i cavalli
nell’aria che si arcuò
e si addensavano le chiome
direttamente a valle,
e, presso la riva dei ruscelli,
erano fanciulli
nell’autunno che fu simile a un addio.

OP II 163

 

VEDO ANGELI VAGANTI

Vedo angeli vaganti e una chiarità lunare.
S’immerge una marea e sono grappoli
i suoni sui colori. Splendente
corre l’alito nel volo assiduo. Ferma,
rimasta indietro, lenta era l’origine
della luce tacita e, se trattengo,
in un dito, il tuo moto reso vivo
e visivo dentro un cerchio di immobile
splendore, trattengo anche il mio respiro
sulla vana superficie, resa desta, che mi resta.
Informi i morti odono. Nuvole
sono qua e là distese: hanno invaso
dell’arco del discosto tremulo orizzonte
il suo impetuoso immenso giro.

OP II 179

 

SE SI COLORA IL MONDO

Se si colora il mondo, tu, non più nuda,
le siepi vedi, le stelle
del solitario tramonto.
Se è l’alba con gloria
non so cosa sia più certa di te che ti sfiora
o si sfiocca, scolpita la lenta
tua gioia in quella che fu simile alla mia.

Perché da tante parti venni,
non so quando più partire
o morire si debba.
In densi aliti stretti
batte monotona o s’assola
lontana la febbre o quest’acqua
in discesa che fa lenta la sorte
come fa avara la sete
e di forti fastigi
la carta riempie.

Vedi strani paesaggi, odi un assolo.
Isole assalgono l’aria:
dentro una sua più strana,
caduto è della terra il peso contro corrente.
Su braccia conserti
una filigrana è impetuoso il vento
che diventa ora filo teso,
ora erba assidua o risveglio
di una sorgente, ora oro puro e suono,
o sonno vaporoso che, raro
e vario, ti chiede.

Brilla nel raggio suo notturno un sole
e riflette nel centro una sua virtù,
bianca la febbre, come la morte
era riflessa nel tuo viso bruno
e dentro un’ala era solitaria
una pena.

Fantasimi, mistica una corrente
nel tuo viso puro si alzano.
Era una gioia che avanza sempre
e tacita ti richiama nel tempo
fino alla più tarda età
e, pianamente glauca,
dentro una faccia immota
si asconde, e, lievemente smossa,
si accende.

OP II 194

 

SE DA DIALOGHI MUTI

Se da dialoghi muti a logori
venti su bianchi benigni piani
il bivacco vedi che rorido s’accende,
non più musica è una vena,
risonante l’odor di luna
che fremente dalle tue dita
sulla vita tua strana silente appare.

Concordanti, miranti ai sogni
gli occhi o una novella crescita
e già una tua pena:
non questa
che ti rimane bruna bocca vuota
murata sulle acque.
Disperate ciglia
un vento autunnale, che scolpito
è sopito nel tuo sangue, muovono
e la cenere che ti piacque.

So questa gioia in te con quella.

Sagoma inquieta non è più la tua.
Di una vaporante disperante lena
così simile ad una vana vena
è assiduo il ricordo dentro una luna che si risveglia.

OP II 229


SOGNO PIÚ NON RICORDO

Sogno più non ricordo.
Erma una luna da l’elleboro
traspare. Illanguiditi nascosti occhi
erano inumani sguardi su le pallide
gote, così bene calcolate lungo le strade,
quando, querula rinascente a valle,
guardi chi nell’ora del giuoco
del giorno celeste, libero, non fa più ritorno
e, nascosto, ancora era nell’ora del bosco;
e tu giungesti, sola, domani.

Verde amara si confonde l’eco
di un’orma liquida col suo destino
nel cavo folle, forse, o solo dentro le tue mani.

Forse il melograno ancora trepido
la nuda gioia viva era di un mito.

Una deserta costellazione mutevole
era e rade le vie del cielo,
e tu a lei tanto tacita e vicina eri
quanto, per virtù di una sfera,
nascosto era accanto al suo,
dentro una spira, il moto veloce
del deserto celeste nel suo cammino
da cui, immota, ella, ora, ti mira.

OP II 265


I BACI, LE PERSIANE VERDI

I baci, le persiane verdi,
verdi alberi modesti, verdi mobili intorno
sulle piagge dell’orto.
Trepido è un disegno sui tetti.
Una corolla scivola su persone morte.
Sapevi quanto intatto, leggiadro un desiderio,
era colpo di un sogno dischiuso,
sogno chiuso leggero di una morte.

OP II 271

 

PERCHÉ OCCHICERULO

Perché occhicerulo viene
(ora sei qua vivo nel tuo cielo)
non ho da dirti nulla più di me.
Confusa e logora sogna acqua triste
una fontana. Rivivono i morti
in questa adolescente,
e un coro di sangue
lacero ti brucia o si disfà. L’acqua
è una lucida corrente; o è glauca
o è buccia di sete guasta nell’aria
che lentamente si dilania.
Non ritorna più ombra o respiro
di foglie morte. Lascia una sabbia
luglio nella solitudine che s’addolora
sempre più in se stessa.
Logora è già densa più di una spoglia morta.
Una cicala, ed or sí or no, ora gorgheggia
e sempre per compenso in un suo canto triste
un’allodola che ama. Un’ala si riflette
spesso dentro lo stesso regno,
nel tempo ch’era diverso
e di puro vetro
dal tempo che ti allontana.

OP II 279

 

SI RACCOGLIE UNA LUCE

Si raccoglie una luce
modesta e trepida leggiadra che ti aspetta
o va in frantumi. Ritorna libera
a te ritrovato, a caso, nel cielo de l’illusione
e sa molte cose sul tuo ciglio asciutto.
Le acque ebbero suono e un accorgimento
rapido. Non sanno essere velieri
e spire mosse del cielo vinto vuoto.

Benché il sole arido si versa,
io stanco, per virtú dei suoi vezzi,
la vena albeggiante, reclina miro;
e un ritmo era mellifluo e disadorno.

Bianco alito era una donna,
nuovo uno screzio era appena o uno spazio
serrato umile che dorma.

OP II 284

 

L’IMMAGINE (È LANGUIDA)

L’immagine (è languida)
resupina riposa. Lasciata indietro
quale dormiveglia è memore
sulle acque e l’attigua superficie
è monotona e risuona.

Da monti a mete nuove
una città risplende e raccoglie
quieta non te più sola. Un’altra sponda,
eco dormente, era come neve.

L’alito era accanto a una gioia.
Una gioia era dopo l’altra, da un luogo all’altro giunta.
Si staglia ai tuoi occhi,
remota, una luna non nuova.

Non più lieta (un filtro amoroso
di raggi si versa) era quanto dentro una cruna
in un tuo dí di festa, un tuo giorno, era
giunto come la fortuna.

OP II 286

 

bibliografia
Quaderni di villa Nuccia

da QUADERNI DI VILLA NUCCIA (1959-60)

 

III

Sceglievo poche cose
e questa vita dall’arsura del ponte
era così proclive; ma non volevo
allontanarmi dai luoghi amati.
Sceglievo fra due rose rosse
e tu, primula, forse mi sai dire
come soavemente avvennero
le contese, prima che si presentasse
in luogo di un luogo amato
la faccia lungimirante
cortese di Dio ….

OP I 227

 

XVI

… Ma passeggiando di nottetempo
odo questo cinguettio
e un’allodola è come una fronda,
una luce calata dal desiderio del cielo.
Ma, vedi, sono costretto anch’io
e ai piedi, umile, è una tomba
e quando spira vento autunnale
sono vento anch’io.

OP I 242

 

XXVI

Tu non fai che amarmi.
Potevi socchiudere, socchiudermi gli occhi.
Ma in sí rossa del color di un quadro
era una sera.
Molte volte ho visto
non veduta, cambiata in due la tua sera.

Non domandare del lento discendere
tuo a settembre. Questa stella avvizziva
in fondo al pozzo, e la tua lugubre
contesa era distesa.

Ma non dirmi più che hai
e se marzo è cosí bigio in fondo al pozzo.

Pure erano rose
e rose e cose e colori da morire
quando era lento marzo
e dietro un cipresso era un nastro
mutilato alla campagna.

Cosí presso a una nube
era così prossimo il suo vero
e il suo lento discendere
era un numero a settembre.

Ora potevi scegliere salire
e con gioiosa giovane fronte
alla fronte tua morire. Ora riposa,
riposa al largo. Hai stanche le iridi ….

Porta l’impronta odorosa del sole
l’aurora alla campagna ….

OP I 253

 

XXVII

… Forse ti so dire questo solo
folle sul tuo cuore come sopra il cuore d’un leone
o questa è un’immagine che ti rapisce a volo
o è un’estesa vana gradinata;

Ma poi batte un lutto questo cipresso
un momento solo
e, di mano in mano, in mano mia,
tenendo in mano il latte
questo tuo quaderno.

Forse nel cuore della notte batte a volo
un grido di rondine attardata;

ma non è che un lusso
e tutta questa esteriore fucina
di lagrime doveva forse dire fine
a un addio, con lo stesso terrore
con cui mi guardi od io ti guardo
a fine di giornata.

La fine di un giorno non è che un lusso semplice.

Un’orchidea ora splende nella mano.

OP I 255

 

XXIX

Numeri, screzi, margini,
questi muri.
Ma ora odi;
rattieni la superficie ferma
di questa fine.
Sulle acque
rese immortali mani fievoli hai
e bagnò i tuoi capelli biondastri
la tua città natale.

Ultimo giuoco di una felicità biondastra
e lo screzio di questa fine,
com’era quiete, a volte,
si ebbe sulla superficie di questi scandagli.

Ed io sapevo rattenerti e mentovarti.

Molte volte la tua pelle arse
di una febbre molto violenta
e in due punti riapportasti
la vana superficie che fu tua
e a molti riapparvero i fiati dei vetri
che vennero ad appuntarsi
dopo lo scorrere lento di una tua malattia.

E in due punti il sopore si ruppe
del respiro del vespero.
Ma questo fu screzio senza fine
sulle labbra della città fantastica:
e questo per la piccola apparenza
che esso dava.
Ma questo era di moto in moto
anche il moto di ogni malattia.

OP I 257

 

LVI

; e i mattini arsi dal gelo.
Ora è pallida terribile una distanza
e lo sussurrarono
lo bisbigliarono a volte
i morti in una luce continua che li abbaglia,
essi cosí sotterranei, pallidi a volte
in una stanza.

OP I 289

 

CXI

ma ti vorrò ghermire
e poi dire nel sonno: quel bianco
stanco sereno viaggio: ma già la cinta
era a metà cinta dalla rupe del sonno
quel sereno dilagare di là.

Forse sono in sonno e in sonno sonoro:
una città che naviga a stormo
e di là non vede nessuno.

OP I 344

 

CXIX

e un mattino – e si perde
nel gelido raggio – Sopra vi spira l’orizzonte.
È un mese quadrato, un murmure,
un insetto e dopo si fa fioco il viso
il raggio di mezzanotte ….

O è un cardellino del mese di gennaio;
dove scopro il soffio del sole d’agosto
o il tuo sorriso sopra i tetti cosí agile
diafano dopo ….

OP I 354

 

CXXV

… E quel che mi rimane
è un poco di turbine lento di ossa
in questo orribile viavai

dove è alzato anche
un palco alla morte.
Ma io mi sento sempre spento.
Un poco di nebbia mi assale.

Ed io ho amato un fiore di biancospino
nelle tue giunture, nelle tue ossa,
nelle aperte contrade. Guarda
non più di ieri; e la sagoma amata
dorme accanto ai futuri cipressi
colla giovinezza della tua gloria.

Ma dimmi; e perché mi ami?
la tua giovinezza passata
e futura era una foglia
e perché da un lembo stai.

Ma tanto, quel che ho amato
era la tua giovinezza scorsa
e remota come un canto
nel canto imminente della sera.

OP I 360

 

CXXXIX

ma acini, questi fili di olio
e questi prati emersi: vedi non sono in fondo
più che un flutto e questo precoce
andirivieni; ma già lo stento
vivere è ciò che porta
in due alla luce ….

Questi colori a stormo
colorano dunque le tue parole
come il dolce breve fiato dei morti
che nel fondo delle acque traspare;

e fu un denso andare in giù in due.

OP I 374

 

CLIV

questo disco che ora irrora tacito di luna
e tu calmavi col sangue qualunque ebrezza,
era di un’ala
la cui lievità vedi cadere nel sogno ….

a partire da qui ora si danza,
ora si sogna.

OP I 389

 

CLIX

ho rubato un filo di capelvenere
e il suo gambo è dolcissimo,
ho sentito quel che mi trattiene.

OP I 394

 

CLXVII

e sembra un sogno, ma non ho nessuno.
O anima, o madre dei poeti
e al tuo benigno regno, io poveruomo,
forse nessuno. E languisco nelle tenebre
che mi ha lasciato il tuo smaltato
smalto; io due volte, pronto,
sul punto di uccidermi e anche questo
mi assale in dubbio. I detriti potranno fare
povere cose miracolose e questo mi sale
al labbro, ove io avevo un punto povero
un punto povero di poeta ….

OP I 402

 

CLXVIII


… come era desto il mattino e in fiore
sulle tue labbra ….

OP I 403

 

CLXIX

… Ora ti amo per poco
quando in quest’orribile
viavai incominciasti a scorgere
nuda la sera. Forse ora era vero,
ora ti manca a castigo il talento.
Ma, vedi, non fa più male,
non fa più paura, anche la leggera
ebbrezza del sonno, quando incominciasti a scorgere ….

OP I 404

 

bibliografia

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