di ENRICO BERNARD
Uno spettacolo multimediale e polifonico, virtuale e spirituale, che ripropone l’opera di un grande poeta misconosciuto della letteratura italiana del XX secolo e apre un dibattito sulla natura poetica del teatro e della drammaturgia.
La prima domanda che ci si pone alla fine di “Città fantastica – il lungo canto di Lorenzo Calogero“, opera video-teatrale di Nino Cannatà sul grande, ma semisconosciuto, poeta calabrese scomparso nel 1961, è la seguente: che cosa rende “teatrale” il verso? E come si distingue una poesia da un brano di prosa o da un saggio filosofico? Solo dal fatto che il verso possiede una sua naturale musicalità, una struttura che ne determina, a prima vista e al primo udito, la peculiarità?
(…) la presentazione dello spettacolo “Città fantastica”, che prende il titolo da un verso di Lorenzo Calogero, definisce teatrale, per via della sua musicalità, la poesia di questo grande filosofo e poeta calabrese. Naturalmente concordo su questa osservazione, ma aggiungerei che il teatro sta alla poesia, come dirò tra breve, come la narrativa sta al cinema. Difficile distinguere il “poeta” Pasolini dal drammaturgo “Pasolini”. Lo stesso dicasi per Mario Luzi: infatti una delle opere poetiche più belle e incandescenti è, neanche a farlo apposta, un’opera drammatica come “Rosales”. Del resto che la poesia sia parte integrante della drammaturgia trova conferma nelle parole di un altro grande poeta contemporaneo, Antonio Porta:
“Il senso del tragico è alla base di ogni mia possibilità di operazione poetica.”
Il pensiero di Porta sulla natura teatrale e tragica della sua poesia può essere esteso ai diversi generi ed epoche della letteratura italiana: il senso del tragico è alla base di ogni possibilità di operazione poetica. Se poi consideriamo il fatto che la maggior parte dei poeti italiani contemporanei (Sanguineti, Penna, Spaziani, Luzi, Rebora, Pagliarani, Pecora, Doplicher, Jacobbi e molti altri) considerano il teatro come parte integrante e in qualche caso addirittura centrale della loro produzione, possiamo definire la dichiarazione di Porta sul tragico come la “costante teatrale” della poesia, a partire da Dante e Petrarca. Dante, perché “La divina commedia”, come nota Machiavelli, contiene – con la forma dell’ “Io dissi e Lui rispose” – una struttura fortemente drammatica e teatrale. Petrarca, perché, criticando Dante sul piano della rinuncia ad una teatralità esplicita, scrisse sotto forma di dialogo drammaturgico “Il secreto”.
Una volta preso atto che la poesia è teatro allo stato puro e arcaico – Carmelo Bene ci ha dato ineguagliabili esempi in questo senso -, resta da chiedersi cosa entusiasma di più di questo spettacolo visto al Teatro Belli. L’immenso Roberto Hertlitzka che legge e conclude recitando, in un crescendo di emozioni e sensazioni, i versi del grande, e in vita ahimé sottovalutato o ignorato, poeta calabrese? Senz’altro la tragica umanità di versi, scritti letteralmente col sangue dell’anima, trova in uno degli ultimi grandi Maestri della scena italiana un’incarnazione e una mimica fatta di pochissimo, eppure di tutto: basta un frusciare del foglio tra le mani di Herlitzka, uno sguardo, una mano che si porta al capo in un gesto di disperata solitudine, dietro il velatino e alla soffusa luce di una lampada da tavolo, per farci stare col fiato sospeso, come in attesa dell’evento poetico e teatrale.
Ma il merito di questa atmosfera va pure alle musiche di Girolamo Deraco, perfette per le tonalità liriche, dense e vaporose, stridenti e melliflue nello scorrere dei versi che si compongono, scompongono e decompongono come per incanto davanti a noi per un magico effetto di proiezioni. Poi rimangono come graffi interiori, sanguinanti, i brani biografici del poeta interpretati da Lydia Mancinelli, mentre la voce sommessa, quasi appartata e discreta, di Carlo Emilio Lerici ci guida attraverso le tappe della vita disperata e disperante di questo grande della poesia italiana che ancora oggi deve essere collocato nella nostra letteratura. Basti pensare che Ungaretti, onesto ma burbero e riottoso ad encomi o a sprecar parole, ebbe a dire: “Lorenzo Calogero ci ha ridimensionati tutti”.
E se la musica, diretta da Alessandro Cadario, crea lo sfondo mistico e sensuale della melodia dei versi, ecco che essa prende corpo nella musicalità delle parole che diventano lirica pura, nel senso totale del termine, cioé come poesia lirica e lirica per soprano ed ensemble, in quella sinergia di suono e senso, canto e lamento interiore, che come uno schizzo di sangue parte dal cuore di Lorenzo Calogero per investirci – efficacissimo il video dello stesso Nino Cannatà – come magma infuocato.
Dicevo “canto e lamento interiore” ritornando alla teatralità della parola poetica di Calogero, che il verso racchiude come una forma di crisalide che lascia intravedere il filo tragico del discorso. Perché tragedia significa proprio questo: il canto (ode) del capro espiatorio (tragos) che, in un anelito di vita e forse di speranza, si rivolge al Dio per esprimergli il dolore dell’esistenza vissuta sulla terra, tra gli uomini. L’essenza della tragedia e, ovviamente, del teatro, sta dunque in questo atto umano di invocazione al Cielo di un fato benevolo, di un destino che si prenda finalmente cura dell’Uomo che si paragona, indossando la pelle del capro espiatorio e lamentandosi come una capra belante, all’animale che sta per essere immolato sull’altare per placare la furia del Dio e chiedere giustizia per sé e per i propri simili.
La poesia come atto “tragico” finalizzata all’ottenimento della giustizia per i sofferenti è la funzione stessa della scrittura. Una funzione che non sfugge, non può sfuggire, a Lorenzo Calogero che in un appunto scrive:
“La scrittura tende sempre ad essere null’altro che un’opera giuridica, cioé l’adempimento teorico della perfetta giustizia (…) Credo tuttavia che nella vita tutto (…) – anche quando sembra esista la malafede nell’animo degli individui – tende all’adempimento della giustizia (…). Solamente da chi ha cognizione del maggior numero di problemi può attendersi un’opera, qualunque essa sia scritta o non scritta che contribuisca originalmente all’espandersi ed all’estendersi della vita in nuove zone“.
In queste poche, essenziali, righe Calogero delinea la dimensione drammaturgica della parola “qualunque essa sia scritta” (poesia o teatro, narrativa o filosofia come dicevo all’inizio): una dimensione etica e morale che mira a costituirsi, ecco il senso di questo “atto giuridico” di cui parla il poeta, come un processo alla collettività, ma anche al singolo individuo e, in ultima istanza, al Dio stesso. E’ da questo concetto filosofico della funzione della poesia e del poeta nella società, che nasce – insisto - la forte “teatralità” dei versi di Calogero, la cui sonorità è certamente un veicolo per l’udito, un canto che si insinua nell’anima, ma la cui drammaticità vivente e sofferente ci giunge per altre vie, non per il canto e neppure per il ritmo, ma attraverso la via del senso storico e della funzione dell’arte al servizio dell’Uomo. La poesia di Calogero, insomma, ci aiuta a capire il mondo, a capire noi stessi e ci spinge quasi di forza a metterci a cantare e a recitare versi accanto a lui o accanto al suo alter ego sulla scena, Roberto Herlitzka. Perché la poesia di Calogero non va solo passivamente recepita e gustata, ma va interiorizzata e sussurrata insieme al grande attore sul palcoscenico come uniti a lui in una preghiera di gioia e di dolore, di speranza e di atterrimento, di amore e di morte, in una sorta di amplio Coro tragico.
La recenzione completa la trovate su: http://www.saltinaria.it/recensioni/spettacoli-teatrali/13145-citta-fantastica-teatro-belli-roma-recensione-spettacolo.html
di CHIARA MERLO
CLIV
questo disco che ora irrora tacito di luna
e tu calmavi col sangue qualunque ebrezza,
era di un’ala
la cui lievità vedi cadere nel sogno ….
a partire da qui ora si danza,
ora si sogna.
Lorenzo Calogero
(04 dicembre 2011)
Teatro Belli – Roma: “Città Fantastica”. Un lavoro video-teatrale di Nino Cannatà con un adattamento dei testi dall’opera di Lorenzo Calogero e un intensissimo Roberto Herlitzka nei panni del poeta calabrese. Importante la collaborazione con Carlo Emilio Lerici, pregiatissime le musiche di Girolamo Deraco (eseguite dal vivo), suggestiva la voce del soprano Serena Salotti. Singole parole vengono distillate nel vuoto dei pensieri e del tempo. Messe insieme fanno poesia, mentre stillano fuori da un corpo minuto e impacciato come gocce di sangue invisibile che non si cancella, né dal quaderno, né dalle pareti di una reclusione forzata, voluta, a guardare la luna sul mare. Solitudine abnorme. Sventramento. La profonda lacerazione del non essere compresi. Perciò scrivere. Soltanto scrivere. Urgentemente scrivere. Con parole minuscole per non sembrare di esagerare, con la punteggiatura infinitesima per non fare sentire troppo alto o profondo il tuo respiro. Grafia da orafo. Cercare il vento tra una pagina e l’altra, sentire il mare nelle lacrime, salate, lasciarle sul fondo a inumidire, poi adagiarsi sul terreno, friabile, della propria speranza vanificata. Mi leggeranno prima o poi? E mi ameranno mai per questo?! Invocare attenzione per ogni sentimento piegato accuratamente nel cassetto, attraversare con l’inchiostro i margini dei fogli, infiniti, sparpagliati dovunque: le tracce mai raccolte e mai ordinate per non arrivare al centro dei tuoi pensieri di morte. Invocare la saggezza degli editori. Pregare, di non essere giudicato sempre con il solito metodo della distrazione, col superficiale ragionamento delle opportunità. Essere escluso ed emarginato perché troppo sofferente. Non essere pubblicato mai: troppo complesso. Lungo negli affanni. Crederci ugualmente, al limite diventare pazzo. O sconfinata follia dell’arte! Amare il proprio dolore. Ammalarsi di umiltà, pudore, riservatezza. Avere la delicata accortezza di non coinvolgere nessuno nel proprio precipitare consapevole. Suicidarsi. Più volte. Ma…“vi prego, non seppellitemi vivo”, scriveva su un bigliettino. Accadendo… Gli altri non vogliono vederla la tua morte, perciò ti ignorano. Ti allontanano, rimandano ogni incontro con il tuo imbarazzo, nella speranza tu muoia davvero nel frattempo…e senza lasciare un ricordo. E tu muori, veramente, all’insaputa di tutti. Questo spettacolo difficilissimo racconta la vita, e appunto la morte, di questo poeta altissimo, così dolorosa, che anche gli spettatori avrebbero voluto fare volentieri a meno di riviverla per empatia. E invece, quasi mentre accadeva, siamo morti anche noi, per ogni singolo sollevato verso. Come bolle d’aria le parole scoppiano, respirate con gli occhi, penetrate solitarie grazie a piccoli spilli che ci hanno macchiato di gocce ancora sanguinanti. Un incrocio di letture con più interpreti. Innesti di immagini e foglie. Inchiostro nell’aria e luna piena. Sette strumenti dal vivo: più voci a declamare, un soprano a urlare. Strazio e preghiera, buio e penombra. Sentirci tutti colpevoli, della nostra inesistenza felice.
http://www.multiversi.info/news.asp?id=292&fb_source=message
UNO SGUARDO DIETRO LE QUINTE
Città Fantastica – il lungo canto di Lorenzo Calogero
di MARZIA MATALONE
Nell’oscurità frammenti di luce, come stelle, si trasformano in migliaia di pagine. Una nevicata di fogli e i versi del più grande poeta calabrese riprendono vita: Così si apre “Città Fantastica: il lungo canto di Lorenzo Calogero”, opera video-teatrale di produzione tutta calabrese, promossa dalla Regione Calabria e dal comune di Melicuccà, che ha debuttato il 16 novembre al Teatro Belli di Roma con la regia di Nino Cannatà e le musiche originali di Girolamo Deraco. Un’atmosfera suggestiva fatta di immagini, suoni e vocalizzi, magistralmente eseguiti dal soprano Serena Salotti con l’accompagnamento dell’Opus Ensemble di Lucca. Accanto alla poesia, protagonista assoluta, si spiegano così ritmi e risonanze, una melodia frutto del rimaneggiamento sapiente di un frammento originale di partitura, a suo tempo manoscritto dallo stesso Calogero. Davvero una figura misteriosa e difficile da interpretare la sua:
Chi era in realtà questo uomo-poeta che trascorse la sua vita esistendo e consumandosi nella e per la poesia? Roberto Herlitzka, una figura magnetica stagliata nella semioscurità, illuminata appena, come al tenue bagliore di una candela, si presenta allo spettatore nelle vesti di una possibile risposta: dalla sua bocca non si odono che versi, tra le sue mani solo quaderni, libri, una penna. È seduto ad una piccola scrivania, prigioniero delle parole che si materializzano davanti ai suoi occhi, come se sgorgassero da una fonte misteriosa, per poi restare sospesi a mezz’aria, fra la completa oscurità e lo sfondo evanescente.
Immagini nebulose, suoni, e una voce su tutte, quella del Poeta, profeta di quell’invisibile che si cela dietro la realtà e che Calogero desidera svelare: nudo, glabro, a volte spaventoso, a volte accattivante. “Un riflesso catturato tra due specchi”, una fiamma che risplende nel buio e che solo in pochi sono destinati a scorgere. Per mezzo dell’opera, il pubblico viene trascinato via, per le oniriche contrade di una città fantastica eterea e notturna; ombra e manifestazione tangibile di un “femminile poetico” onnipresente in Calogero, reso dall’aleggiare sottile, suggestivo, dei versi recitati da una bravissima Lydia Mancinelli.
In un sovrapporsi di voci emerse dal passato, lo spettatore compie il suo viaggio attraverso le vicende e le disavventure di una figura difficile da decifrare, anche solo da un punto di vista biografico. Una voce su tutte, quella del biografo Giuseppe Tedeschi, fra i pochi che ebbero la fortuna di conoscere il poeta di persona e che nel suo racconto, posto a prefazione della prima pubblicazione Lerici, traccia un quadro appassionato e allo stesso tempo genuino di questo strano poeta calabrese, che fu fruitore privilegiato, ma anche inevitabile vittima, di una vocazione poetica di unica intensità. La sua fu un’esistenza interamente dedicata all’esplorazione dei meandri più reconditi e più vivi della poesia, e più in generale dell’espressione, che diventa istinto, intuizione, passione sofferente. Usando le parole dello stesso Herlitzka, protagonista dell’opera e legato al poeta da un destino particolare che, negli anni ’60, ne fece uno dei suoi primi conoscitori, quando fu chiamato a declamarne i versi appena pubblicati da Roberto Lerici al Piccolo Teatro di Milano: “Solo un lettore appassionato, “febbricitante”, può leggere questo poeta e lasciarsi travolgere dalla sua forza, che appunto è puro istinto, frutto di una sofferenza quasi bestiale”. Di avviso simile anche la Mancinelli, altra “Grande” coinvolta in questo significativo progetto, che interrogata sul Calogero risponde: “Era un grande della poesia e se tutto questo servirà a riportarlo alla luce, che ben venga: quella di Calogero è una poesia “emozionante”, dotata di un impeto naturale che ti trascina con sé quando la leggi”. È così che la “Città Fantastica”, che visse e prosperò nei versi del poeta calabrese, rivive oggi grazie al teatro. È questa la “porta dimensionale” che ci invita, ancora una volta, a fare un passo in avanti verso quel mondo sperduto e magnifico che solo l’arte è in grado di schiudere, soprattutto se espressa in versi come quelli di Lorenzo Calogero, il quale, si spera, da oggi in poi verrà definitivamente sottratto al suo ingiusto oblio.
Scarica il pdf della rassegna stampa sulle celebrazioni dell’anno calogeriano 2010-2011
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