LUCIA CALOGERO
Lorenzo Calogero, Dai Quaderni del 1957
Prefazione
Al fine di rendere maggiormente fruibile la lettura della lirica calogeriana, non sarà inopportuno sintetizzare alcuni gangli poetici, non solo strumentali, che possano elucidare la ποίησις di Calogero, pur nella consapevolezza della probabile parzialità delle indicazioni che in questa sede si forniscono, considerata l’esistenza del tantissimo materiale non ancora visionabile. Tuttavia si ritiene che, avendo avuto il modo di ripercorrere attraverso diversi quaderni inediti il farsi dell’elaborazione poetica nelle sue molteplici varianti e variazioni, tali indicazioni possano essere sufficientemente attendibili per puntualizzare alcuni aspetti rilevanti della poesia di Calogero.
Jurij Mihajlovic Lotman in un suo saggio sui sistemi segnici focalizza l’esistenza di due entità o classi di opere letterarie che vengono inquadrate nell’estetica dell’identificazione e/o nell’estetica della contrapposizione. La prima si fonda sulla totale identificazione dei fenomeni della vita con i modelli standard noti al pubblico e pertanto rientranti nel sistema delle regole ormai comunemente percepite; la seconda è quella “in cui la natura dei codici non è nota al pubblico prima della percezione artistica”.
Quando ci si pone di fronte alla lettura di un’opera occorre stabilire a quale delle due classi l’opera appartenga. Spesso via via che si penetra nel congegno più intimo dell’opera ci si accorge che l’autore, che sembra essere interprete dell’estetica della contrapposizione nei modi espressivi, sia in realtà interprete dell’estetica dell’identificazione nei contenuti che tratta; e viceversa può accadere che l’autore, che pur si esprime secondo canoni e dettami, per così dire, tradizionali, veicoli contenuti ascrivibili all’estetica della contrapposizione. Non sempre è possibile una distinzione netta anche perché, all’interno della stessa opera, è possibile trapassare insensibilmente da una classe a un’altra, oppure è possibile intravedere la coesistenza delle due classi. Ora tutta la poesia del Novecento da Mallarmé a Montale si presenta spesso come poco fruibile perché sembrerebbe veicolare codici non noti o non sufficientemente e consapevolmente noti al pubblico.
Questa impossibilità di autentica fruizione si presentava come fenomeno più estesamente massiccio fino alla metà del ’900 per il persistere di forti resistenze culturali da parte di chi si ostinava a non voler riconoscere l’avvenuta assunzione di nuovi modi di percepire il senso e il valore e dell’esistenza umana, colta nella sua più fonda interiorità, e del diverso rapporto dell’uomo con se stesso, con gli altri, con la natura e con l’esistente in quanto tale. Oggi tuttavia alcuni pregiudizi, per taluni aspetti, sono caduti e vi è una più diffusa consapevolezza dell’essere in sé e dell’essere, così come vi è una più diffusa consapevolezza della precarietà dei significati che si attribuiscono all’esistenza e all’origine umana, così come vi è una più diffusa consapevolezza della necessità di trovare spazi, pure limitati, che giustifichino da una parte, in qualche modo, il nostro essere nel mondo e ci restituiscano dall’altra a una dimensione più autentica e consapevolmente vissuta. Pertanto la poesia di Calogero, che fino a qualche tempo fa poteva apparire come incomprensibile, oggi appare più chiara ed evidente. La ricollocazione del termine “verità”, con tutti gli assiomi e la scala di “assoluti” da essa discendenti, in altri ambiti semantici, diversi da quelli per così dire tradizionali, determinata da tutto il dibattito culturale- filosofico-scientifico del Novecento dalla teoria della relatività ad oggi, è un dato da ritenere sufficientemente interiorizzato e tale da costituire una prima chiave di lettura, anche per chi non è addetto ai lavori, di testi considerati a torto astrusi e difficili. Questa premessa può essere utile sia per superare, da una parte, il falso problema dell’astrusità della lirica calogeriana, a torto considerata da alcuni ultima propaggine post-ermetica, e sia per consolidare dall’altra l’ipotesi di lirica di natura esistenziale e quindi di lirica più che mai viva e aperta a ulteriori sviluppi.
Ma passiamo ora a considerare un po’ più analiticamente la poesia del nostro autore, in ciò avvalendoci anche delle varie riflessioni sparse nei quaderni del poeta in ordine al significato e al valore della poesia, dell’uomo, del mondo e della storia che in più occasioni il poeta ha fatto.
Intanto il linguaggio poetico di Calogero è caratterizzato da una diffusa polivalenza semantica; ogni parola si carica di sensi che si moltiplicano indefinitivamente in un giuoco continuo di rinvii. Ciò avviene non solo e non tanto perché il poeta va alla ricerca di sensi e significati che escono dalla norma nota a tutti, ma anche e soprattutto perché la singola parola associata ad altre, viene spostata dal suo usuale contesto semantico per venire ricollocata in un altro contesto semantico, usuale intrinsecamente anch’esso, ma che diventa inconsueto e quindi fortemente pregnante per l’introduzione della nuova parola. Tale procedimento, in Calogero, dalle parole si estende agli enunciati e alle immagini laddove per immagine bisogna intendere la condizione, l’ambiente metaforico nel quale l’atto poetico vive e si fa strettamente connesso ad esso.
Accigendosi alla lettura dei versi di Calogero è necessario abituarsi a questo meccanismo intrinseco alla natura della sua poesia, pena lo scacco della comprensione.
Perché Calogero segue questo procedimento fino a rendere esausti? È civetteria di intellettuale narcisista o trae il nutrimento da una visione del mondo e dalla vita maturatasi in modo sofferto nel corso della sua esistenza?
La consapevolezza culturale scientificamente fondata, quale si ricava dalle osservazioni sparse sui quaderni, dell’infinita gamma di relazioni e correlazioni esistenti 1) tra gli uomini, ciascuno dei quali è considerato da Calogero un cosmo vivente contiguo ad un altro cosmo e così via all’infinito; 2) tra i vari sistemi cosmici e quindi tra gli infiniti universi esistenti; 3) tra i vari sistemi interni allo stesso organismo del singolo individuo non può non frantumare il sistema tradizionale della espressività e quindi del linguaggio.
La parola semanticamente definita, i mezzi logico- sintattici definiti e sottoposti a norme più o meno inderogabili sono accettabili in un sistema di valori in cui ciascuno di essi, pur correlato all’altro, occupi uno spazio in ogni caso definibile e precisamente disegnabile. Ma quando si giunge al convincimento che ogni evento si dirama in una serie “irraggiantesi” di altri eventi, ciascuno dei quali, a sua volta, irradia altri eventi e così via all’infinito, un tale sistema di segni, oltre ad essere insufficiente, non corrisponde e non può corrispondere a questa mutata concezione della vita e della storia.
Nella poesia di Calogero (nelle parole, nelle immagini, nei temi, negli argomenti, nei nessi logico-sintattici, nell’uomo, nella storia, nell’esistenza, nell’essere tutto oggetto dell’evento poetico) avviene ciò che si è appreso attraverso la scissione dell’atomo. La ricerca di Calogero è confluita nello sforzo di cogliere, oltre che il valore in sé di ogni singola cosa (sia essa natura, che universo, che anima, che uomo, che intelletto), l’infinito sistema di relazioni che la lega e disunisce alle altre cose. Il lavoro di scissione e di separazione è sempre connesso, infatti, a un lavoro di ricostruzione e ricomposizione. Più si indaga, più si ci avvicina a nuclei sempre più elementari, nel tentativo di giungere al farsi della vita e dell’essere.
Tale il procedimento poetico di Calogero che seziona, divide all’infinito non per distruggere apocalitticamente, ma per giungere al soffio che genera la vita e che è esso stesso flusso.
La polverizzazione atomica (nel senso di atomo) che apparentemente sembra disperdere distruttivamente eventi, sensazioni, suggestioni, umanità che vagano casualmente in uno spazio privi di “antefatti” e di senso, è in realtà immagine ricomposta e archetipa di ciò che l’uomo e la natura sono nel mondo o almeno in un determinato mondo o ancora meglio nel mondo che ciascuno si rappresenta e prefigura e che è cangiante ai suoi stessi occhi, alla sua mente, al suo pensiero, per quegli equilibri sempre riformantisi secondo la logica delle infinite relazioni esistenti. Ogni mondo contiene un “suo granellino di verità” - afferma Calogero - e l’evento poetico può “schiudere” solo le tante verità parziali che un mondo o quel dato orizzonte, nel quale ci muoviamo, racchiude e rappre- senta, poiché è impossibile trovare le “ragioni ultime che rego- lano l’universo fisico perché si tratterebbe di regole condizio- nate da altri universi attigui di cui non percepiamo l’esistenza, ma neanche le possibilità e i modi di esistere abbastanza lontani dall’intuibile”. Analogo il discorso del poeta per l’universo umano: il suo sforzo costante si muove nella direzione di chi, obbedendo ad una insopprimibile necessità di libertà interiore, vuole accedere al cuore dell’universo. Per il poeta assillante è il bisogno di cogliere il significato della vita e altrettanto impellente è il bisogno di “delimitare” in maniera sempre rigorosa la sua “sorgente” perché se ne possa utilizzare, più intimamente e profondamente, quanto da essa sgorga o può sgorgare. Pur convinto della perenne “inferiorità” dello sguardo poetico rispetto alle mete di disvelamento dell’essere che l’uomo si prefigge, “lo sguardo del linguaggio” “nell’evento” poetico mira a “condensare e captare”, in una delle possibili formule verbali, la figura dell’uomo o animo o linguaggio che sia colto nella sua naturalità e nel suo destino. È dunque quella di Calogero non poesia della disintegrazione nucleare e di ciò che resta di essa in frammenti impazziti che vagano eccentricamente in un paesaggio distrutto e dilavato, ma poesia che condensa in sé i procedimenti tecnici della scomposizione atomico-nucleare per captare i singoli elementi e i più elementari corpuscoli, ciascuno dei quali è essere. È chiaro che un tale tipo di ricerca è rischiosa e può portare alla disintegrazione nucleare e talvolta ciò avviene anche nella poesia di Calogero:
Passavano a disperate distanze
anelli ...
Dopo la pioggia era un'altra pioggia
o violento il sole o questo trasmigrare
vuoto di uccelli. Tu ghermivi questo senso diafano dove uno di vuoto in vuoto
s’appoggia e non vedevi
non indovinavi che era tant’altro
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RENZO FRANZINI
Alcune osservazioni sulla poesia di Lorenzo Calogero
Se mai la poesia, la lirica necessiti in particolare di lentezza, di una acquisizione che sia arte del centellinare, di scoperte tanto simili all’invenzione, è provocato dal meccanismo compositivo non sempre tanto banalmente emergente, come potrebbero essere certe regolarità che si è appreso da subito a individuare. Quanto sfugga una definizione “esatta”, cioè richiesta, di lirica come genere, è risaputo: neppure l’appellarsi alla sfuggente questione del ritmo, poiché ritmica è certo anche la prosa, né viene in aiuto la nozione, peraltro filologicamente corretta di musicalità, legata appunto allo strumento accompagnatore nelle origini, o semplicemente alla voce che canta.
Viene in aiuto qualche tentativo, almeno uno, che si appella, ancora insufficientemente al modo di “trascrivere”, il riferimento è a Frye e al suo principio di plausibilità (1). Poesia dell’io solitario, ma non dell’intimità del singolo, voce dell’io-tutti, dell’io terza persona, monologo e dialogo e simposio a un tempo. La lentezza si diceva: lenta è la lettura, e a voce alta, a cui ci si deve assoggettare se si vuole entrare e poi percorrere i territori assai preziosi di Lorenzo Calogero: ciascuna opera reca in sé gli indicatori della propria origine, ma con Calogero occorre un tempo più dilatato, occorre quel tempo che si è perduto, che non è il tempo della attuale esistenza, il no-tempo della attuale esistenza.
Non è infatti poeta di singoli componimenti, che possa cioè legarsi alla fama di un capoverso o di una felice e breve intuizione: e questo, si dirà, è lo stigma, la cifra, della sua eccellenza e della sua originalità. Chiede uno spazio ampio, appunto quel tempo mancante all’oggi. Forse Calogero ha avuto la sfortuna di vivere e soprattutto di morire, in un’epoca che preparava il terreno alle neoavanguardie, per le quali andava eluso ogni atteggiamento lirico o forse semplicemente è questione di fato e di necessità, che la sua opera debba rimanere in uno spazio piccolo, quello che la modernità ha riservato alla poesia, al suo ritrarsi quasi programmatico, alla rinuncia stessa a mostrarsi e a essere, come testimoniano Hoelderlin o Walser, che è poi il destino riservato alla filosofia. Poesia e filosofia, discipline della misura, si fanno da parte nel dominio della dismisura.
Da un punto di vista metodologico, questi appunti, che fanno riferimento in particolare al primo dei volumi della Lerici, pubblicato nella Collana “Poeti europei”, uscito nel 1962, mirano a sottolineare il meccanismo generatore della poesia di Calogero, la cui natura sembra collegarsi a quanto Ferdinand De Saussure, commentato da Jean Starobinski, ha scritto a proposito degli anagrammi, nonché a quanto espone Raymond Roussel in “Come ho scritto alcuni miei libri” (2), a proposito del proprio operare. Raccolta di riferimento, “Come in dittici”, che appartiene alla fase poetica più matura. Nelle poesie del primo periodo infatti, Calogero è timido, sembra darsi da fare con un materiale leggermente estraneo o non collimante con i suoi modi: cerca le rime più che trovarle, le forza affaticando la fluenza del metro, ne consegue rigidità che lo scioglimento dalla tradizione gli porterà (3); la cosa è naturale nel poeta giovane che cerca di innervarsi nella tradizione e teme l’elisione radicale: c’è voce individua, ma c’è la comunità poetica e la comunità poetica può essere un limite.
Poi lo scarto, l’acquisizione di un distacco: se il legame con la tradizione risulta piuttosto evidente, non fosse per una lingua raffinatissima che procedendo da Dante e Petrarca giunge a Leopardi passando per Tasso e Marino, il legame con la modernità non può essere ridotto solo all’idea mallarmeana di poema per frammenti, ma anche ad altro; si fa riferimento al già citato processo compositivo, che in verità si avvicina alle radici essenzialmente sonore della poesia: e tale processo vive della dissipazione e dell’esaurimento che non si esaurisce, è qui infatti l’impossibile fine di una scrittura essenzialmente dipendente dalla materia fonica. Il poeta non parte, se così si può dire, da un “momento narrativo”, quanto piuttosto da un parola o da un gruppo di parole che sono più condizione sonora che guide di significato, da un accordo primitivo probabilmente consonante a quanto verrà poi ad assumere un valore di significato, in linea con “Il demone dell’analogia”, vero e proprio trattato di poetica in formato misteriosamente tascabile. “Des paroles inconnues chantèrent-elles sur vos lèvres, lambeaux maudits d’une phrase absurde?” (4)
Domanda Mallarmé all’inizio del “Demone dell’analogia”. Non c’è poesia bensì poema, solo in una prospettiva di insieme: è possibile cogliere la voce, la voce più della scrittura, dunque non fermarsi al singolo complemento, ma intenderlo, esercizio nuovo di memoria, parte coerente di un insieme rispetto al quale si farà attenzione ai rimandi, alle occorrenze, soprattutto alle ripetizioni. L’esercizio è fuori dalla retorica: trattare la poesia della modernità secondo i canoni della retorica, significa annullarsi le possibilità di incontro.
Inutile dire che si evade dalla metafora, dove tutto è metafora, significa che altro è accaduto: questo altro è la modernità, è il canto continuo di Hoelderlin, o la sua afasia, il suo ritrarsi nell’incanto forse doloroso, forse felice della torre. Nel ”Demone della analogia”, sembra di potere individuare una logica premessa al modo compositivo di Lorenzo Calogero: se si vuole assumere il brano come narrazione, allora si dirà che vi si legge dell’improvviso insorgere nel narratore di una frase la cui provenienza è indecifrabile, e che tuttavia insiste chiedendo di essere pronunciata, diciamo pure cantata al di là di ogni logica. Più tardi, in un campo percettivo che non esclude l’imponderabile, diciamo pure il caso, si scoprirà che la frase, nella sua comunque irrisolvibile presenza, sembra collegarsi agli oggetti presenti nella vetrina di un negozio di liutaio e tuttavia la frase mantiene il colore evocativo di una significazione che pur nella associazione imprevista, rimane sospensione.
Mallarmé esemplifica così, uno dei modelli compositivi della modernità, fortemente legata non a caso al cosiddetto materiale non consapevole, nonché appunto a libere associazioni (5), rispetto alle quali il poeta è in una condizione di attesa e poi di proiezione in avanti, senza un vero progetto volontario. Solo alla fine, sull’orlo dell’imponderabile, forse si riconoscerà come la parola ha giocato, dove ha condotto, verso quale luogo (affatto retorico o retorico, benché in accezione “psicologica”) ha accumulato valore: un bric-à-brac, una accolita di oggetti, una confusione silenziosa di ritagli, anche l’opera collettiva che Benjamin andava raccogliendo in “Passagenwerk”. Il poeta, si è detto, abbandona il progetto, diciamo pure il tema (il titolo), o, poste le “ossessioni”, preferisce non organizzarle, lasciarle attive: non sa cosa accadrà, segue riverberi e sonorità che catene brevi o meno brevi di parole gli offrono. Il verso libero non esiste, esiste piuttosto un inesorabile, necessario sciogliersi dalla pagina, abbandonare lo sguardo per concedersi all’udito, ovvero a un modello di analisi che non vedendo o vedendo meno, sceglie necessariamente una sensibilità musicale dicibile solo in una misura poetica. La poesia della modernità ha modificato le misure, e quel che accade non è da considerarsi un taglio, bensì, coerentemente, un versus, un volgersi al canto. Metrica della modernità, della contemporaneità, associazioni nelle quali l’istinto sonoro prenderà forma di tema: è appunto il demone della analogia a sfiorare l’attesa del poeta, condizione di filtrazione. E’ il riverbero fonico, il ripercuotersi suo nell’udito a costruire il complesso, in una dimensione che si definirà anagrammatica, intendendo col termine lo sfruttamento al massimo livello di gruppi di fonemi utilizzati a mo’ di variazione nella costruzione di un frammento poetico di varia lunghezza, o sparsi, letteralmente seminati affinché germoglino nelle parole. A questo punto è evidente che la misura non è necessariamente legata al numero di sillabe, bensì a equilibri in movimento d’altro tipo, esigiti proprio dalla componente di base.
Quanto al significato, esso emergerà dalla ricorsività di figure, dal ripetersi anche involontario di motivi che eludono però il progetto a priori; oppure si potrebbe variare dicendo che esiste probabilmente un principio narrativo, fatto di poche parole, ma tali da orientarsi in un esito non conoscibile che solo dopo, fuori, per così dire, da una progettualità che le indirizzi. Gli stessi possibili personaggi, le loro azioni derivano dalla loro pressione fonica: prima solo nomi, nomi legati a azioni, ma il narrato nasce da associazioni che conducono là dove vuole il suono.
Mallarmé, nel ”Demone”, descrive dunque il destino della poesia della modernità: quello della voce, indicandoci come accada la voce, come la voce interroghi, scandisca, sia costretta a interrogarsi sui tempi del canto diversi: l’insistere della voce, che diventa litania, parte di preghiera.
A buon diritto il testo può costituire una base piuttosto importante per una analisi della azione poetica di Lorenzo Calogero, che, collocato a pieno titolo nel solco della tradizione, si trova esattamente coniugato a un modernismo che forse è meno evidente, e che proprio per questo occorre richiamare: una dimensione concettuale, frutto del concettismo seicentesco.
Cenni sulla poetica
Quel che segue è una serie, la più evidente, di allusioni a una poetica in corpore operis, nel senso che viene direttamente ricavata dal testo nella sua dimensione originaria, pura, e la purezza è frutto di una ingiunzione forte che separa l’imperfetto dal perfetto, il perficio latino, dunque ammissibile nel senso artigianale del manufatto completato a regola d’arte. Quella di Calogero è una poetica oscillante tra la “agudeza” seicentesca, eredità che la poesia della modernità conserva con rigore, e il concettuale, inteso come ripensamento costante di come si attui la poesia, di quale forza agisca: e si risponderà da subito ancora una volta, rimandando al privilegio del suono, al suo dominio assoluto, segnalando che tale dominio non è così scontato. Agudeza o concettismo anche in assetto per così dire polemico rispetto al lettore, al quale Calogero concede assai poco: difficile farsi un’idea della sua poesia, se non nell’insieme: i singoli frammenti, isolati, mantengono una distanza di domanda, quanto all’insieme, inteso come compimento (forse) del poema, chiede molteplici incontri. Poiché il poema non procede verso la fine, piuttosto rimanda all’eco, ovvero al suo risuonare in chi lo ha ascoltato.
Agudeza dunque in chi lo scrive, che costruisce immagini estremamente ardite, ardite nella possibilità di “vederle” e ardite per l’ascolto. Agudeza in chi lo riceve nella forma della voce che indaga, prima interprete, del poema, chiamata alla comprensione attraverso lo sgranulamento, e la dissoluzione delle parole, vivisezione che le riconduce alla soglia del silenzio, soprattutto dopo averle allontanate dalla dura condizione di essere segni sulla pagina, seriche striscie (6) sbocciate da larve.
Secentismo nelle costruzioni allegoriche, dove a recitare sono concetti disposti su una scena essenziale e scelte lessicali che vanno da preziosismi retro, citazioni consapevolissime, ma affatto ironiche (indarno, novelli, lo stilnovistico chiarità), a termini per così dire tecnici (struttura, parallelepipedo, esatto), che sembrano guidare a un’idea di equilibrio quasi asettica (si segnala anche un bellissimo azzurrale - p.213).
L’artificio dunque a buon diritto, ovvero l’intendere l’opera prima del suo essere materia e contenuto, pura attività del pensiero: poesia mallarmeanamente svincolata dalla esposizione tematica, concentrata sul processo del proprio realizzarsi: in questo senso il lirismo va ridisegnato, anzi, Calogero invita a ridisegnare la natura della lirica, la stessa lettura della sua opera come autobiografica.
La poesia è dinamica, e Calogero lo dichiara a più riprese: essa procede dall’udito al labbro, alla voce, poi alla scrittura, ma la scrittura mantiene quella distanza che indica una mancanza. A dominare è il gesto della voce, la sua presenza, ma anche, e soprattutto, il valore riassuntivo della voce memoria. Diciamo pure che la memoria si organizza nella voce, nell’incidente incontro con i suoni, taciuti o pronunciati dal labbro in un suono unico, come si legge in “Se ancora rinascesse a valle” (7), dove difficile è sondare l’effettiva portata di quel suono che potrebbe essere inteso come limite, ma anche come portento di una severa mormorazione entro cui giostrano gli altri suoni. Qui però si entra nel campo delle ipotesi. Di fatto la fisica della poesia, la sua natura dicibile e soprattutto detta, conduce al di là del gesto della scrittura che pure deriva da un processo che ha in “Molteplici suoni” o ”A gruppi uguali” (8), nella attenzione ai loro accadimenti, la propria origine.
Suoni, non parole, anzi, pare proprio che la poesia proceda, come detto, più verso uno sgranulamento delle parole, confidi nella scissione delle frasi, affinché altro resti, una risonanza, come si può leggere, una eco: in esse insiste infatti un potere ulteriore generativo, la sospensione nella quale altro forse interverrà. “Le sillabe contratte”,”I segni appena dietro” (9): dunque una conferma, di un gesto: l’affannoso inseguimento che i segni tentano nei confronti di una materia sfuggente da essi separata. E’ un appena a separarli, ma determinante, l’impossibile giuntura tra suono e segno, il suono preferendo sfiorare il labbro, esperienza a cui la poesia contemporanea, nel suo ritorno forte alla dizione, al canto, richiama con estrema e correttissima insistenza: l’istante fisico dell’accorgersi. E alla sillaba (non alle parole), che non porta più la sua risposta (10), succede il tempo della interruzione: nel momento in cui, insomma, si blocca la sonorità evocatrice, il frammento si esaurisce.
“Domande si sono mosse” (11) può funzionare da testo di riferimento per la definizione di quanto esposto a proposito della poetica calogeriana; invero numerosi sono i versi dedicati alla riflessione, qui però, l’evidenza del dato è massima, in ragione della sua densità.
Domande si sono mosse senza nome
domani e l’albero alla riva discosto,
composto ad amarsi. Queste righe,
queste seriche striscie sono sbocciate da larve.
I capelli sono così intensi sulle acque
come un grappolo nel bosco.
La virtù nascente è una spiga
ed è sbocciato il compleanno.
So di non esserti accanto o più prossimo.
Quanto più intensamente amo
è la rivale di un novello suono.
Parimenti la virtù di crescere
solo è un incontro simile all’amore
che ha ritrovato se stessa accanto al mare
o altrove. Si elidono le parole,
poi chiedono di essere sole,
poi lo raccontano amaramente
ad un ciottolo.
Tentennamenti di suoni
novelli appaiono. Mi placo
negli oscuri amareggiamenti
quanto tu eri prona, solitaria
nell’ala entro te rivolta, e le amiche d’un tempo
stagliavano perfettamente capelli
da piante nettamente nude nell’aria
nell’ora del bosco; e il liquefatto essere
e l’ondeggiare e il non essere
erano in te da un ruscello. Se mi segui
per virtù di te stessa t’immergi.
Alla virtù d’ombra si sveglia
chi era opaco in un soffio. Alla giuntura
sinuosa soffre lievemente smossa
giunta alla fine dell’età dell’oro
simile all’età corrotta,
la tua morte in gola.
ell’era veramente albero opaco,
sognante gelida persona morta
I tentennamenti gli accorati accenti,
i fini accorgimenti, i ricordi,
le lacrime di lei si congiungevano
a lei sola. Si accompagnavano
umili le bende de la nube odorosa
a note cadenzate presto bene o tardi di villa
in villa accanto al fiume
in un disperato abbandono.
Il dolore umano fu simile alla gioia
Nasceva da un’idea chiara
nascosta folle una meraviglia
e in un perduto bene tremavano
prime e trepide, timide le parole..
Se mi rifaccio intorno a lei
i morti già odono così rossi
acuti vorticosi azzurri
in un lume.
Nel tuo viso grigio
nel suo esempio si scuotono.
Piangevano con folte ciglia
in tenui palpiti nascenti gli amanti
che in sé soli credevano spandendo
per volontà solamente il ricordo.
Come detto, ”Domande si sono mosse” è forse il testo più denso di indicazioni relative alla poetica: in esso infatti, escluso il motivo dell’eco, invero presente nella fisica stessa dei versi, si ritrovano tutti gli altri (la parola, la voce, la scrittura) quasi conseguenza di una volontà di illustrare che cosa sia poesia, come essa visiti l’”io”. Che cos’è la poesia per Calogero? Nasce dalla esigenza di rispondere a una provocazione: c’è infatti nell’iniziale “Domande”, un movimento di figure astratte che prendono senza sorpresa corpo vivo e agiscono; tuttavia sono prive di nome, non generiche, semplicemente forse ne chiedono uno. Ma che nome hanno le domande, quali domande hanno un nome, che cosa significa il loro anonimato? La pura idea dell’interrogazione, l’istante del dubbio, la sua azione coercitiva e insistente. E poi il “domani” non corrispondente al passato del “si sono mosse”: un inghippo nel tempo, un sovrapporsi acronologico, in verità frequentissimo in Calogero, il garbuglio nel quale la memorazione induce, fase sognante, il sonno tanto spesso indicato nel poema. Le domande sono pure allegorie che intervengono ad aprire il gesto alla scrittura. Situazione anche questa, piuttosto abituale in Calogero che costruisce un “teatro” nel quale va offrendosi la drammatizzazione del ricordo e in tale gioco allegorico entra qualcosa della pressione seicentesca.
Improvvisamente una sorta di accorgersi rispetto alla scrittura, la consapevolezza del gesto, la riflessione intorno a quanto essa comporta, soprattutto intorno alla sua origine: l’idea della nascita è piuttosto marcata, evocata da “sbocciare”, successivamente ribadita da “nascente”, relativo a “virtù” e di nuovo lo “sbocciato compleanno”. Poco più avanti c’è “crescere”. Insomma, senza forzature si può intendere la prima strofa come registrazione di un accadimento e come commento ad esso.
Il punto fermo apre ad altro, apre a una immagine che conduce di nuovo al concettismo seicentesco, in primo luogo nella difficoltà di individuare un nesso tra il prima e il dopo e anche nell’individuare con chiarezza una scena occupata dai “capelli così intensi sulle acque”, e si segnala che “intensi” sarà, cinque versi dopo, “intensamente”.
Allo sbocciare iniziale, al crescere come virtù, le parole organizzate in seriche striscie replicano con la necessità di sciogliersi, di restare sole, anche qui parole-attrici. Poi la opposizione alla comparsa di un novello suono: l’intruso è filtrato dall’insieme che precede, non può esserci caso, caso no, misura sì, inutile insistere sul fatto che poesia giochi tra i due sensi di misura, quello morale e quello numerico, in essa dunque avviene l’incontro dell’estetico con l’etico e avviene tramite il filosofico. Ma come intendere l’elisione delle parole, in che senso esse si elidono?
L’elisione somiglia a qualcosa di doloroso e avviene all’interno di un insieme, una sorta di amputazione necessaria (forse), dettata dalla necessità di rispettare il serico, ma si pensa anche alla fase di dizione, alla voce alta che nel dire i versi elide quasi naturalmente. Allora esse, le parole, chiedono di essere sole : dunque di recuperare la condizione che potrebbe ricondurle fuori dalla pagina, alle larve da cui sono scaturite, ma anche all’isolamento che le assedia connotandole o annullandole.
Una possibile risposta nel frammento di pagina 159, in cui molto evidente si riconosce il contrasto tra la vita acre dei segni e il suono dell’essere felici: i segni, se possibile intenderli come parole scritte, come segni dei suoni sulla pagina, perdono la qualità consolatrice che il suono evocatore possiede con una certa intensità, benché non sempre e nella fatica dell’essere segno si vuole sentire una eco delle parole di Hoelderlin, nell’esordio della seconda stesura di “Mnemosyne”.
Le parole devono o risillabarsi, o sbriciolarsi, ovvero riprendere la loro sostanza più elementare, la pagina è una prigione. La voce ancora, ancora l’ascolto delle singole molecole, il ritorno alla intonazione e al canto.
Questo è quanto si ricava.
Parole sole, parole immagini: nell’”Ari et les songes” (12), Bachelard sottolinea il fatto che le immagini siano il soggetto del verbo immaginare e non l’oggetto: le parole cercano qualcosa, un aspetto, una maschera in cui in parte riconoscersi. l’appartenenza loro alla natura, esse possono orficamente farsi comprendere da un ciottolo, narrandogli l’amarezza della solitudine cercata.
Le parole sono nell’origine, la meraviglia sgorgata da un’idea, loro il compito di donare materia alla meraviglia, in una ottica certamente e fuori della storicizzazione, barocca: è il dolore umano simile a una gioia quello che nasceva; quanto all’idea chiara, essa corrisponde all’esordio delle parole, alla loro azione timida, sì, ma non meno rivelatrice, chiarificatrice nell’istante stesso del loro essere prime all’essere.
E nel loro spogliarsi di sensi amari una quota di consolazione, che è nella acquisita verità.
“… è il suono
dell’essere felice, gioia non tersa
calma nel suo fondo” (13)
A tale poetica si accompagna, come si è detto, un procedimento che si è provato a indagare anche sulla base delle idee di De Saussure intorno all’anagramma, e della relazione intorno al “Come ho scritto alcuni miei libri”, di Raymond Roussel.
Il procedimento
Ne “Le parole sotto le parole” Starobinski (14) interroga i quaderni composti da De Saussure sull’anagramma e sulla sua azione determinante rispetto alla composizione poetica: egli sostiene che base della composizione poetica (e non solo) latina, siano i nomi “parole-ombra”, nomi di dei, di eroi, di divinità, di personalità: i nomi ricorrono evocati, ma tecnicamente e secondo equilibri assai precisi, all’interno dei gruppi di versi che sono essi stessi i nomi, con i fonemi che li compongono. a costruire.
Saussure cerca gli equilibri tra vocali e consonanti: un buon testo si fonda esattamente su questi equilibri (o squilibri) (15) .
Sagoma, complesso-manichino, terminologia che De Saussure concorda con se stesso: considerare che il nome non è nascosto, anzi, costantemente ribadito, ripetuto, diventa l’ossessione del testo, ma solo per chi lo sa leggere, poiché questa sembra una condizione essenziale, benché taciuta.
De Saussure si accorge di un rischio, ovvero che sia abbastanza probabile individuare anagrammi dovunque, per questo cerca una legge, un principio che possa superare il rischio.
Non lo trova. O è eccessivamente frequente, dunque si annulla per quantità. La cosa curiosa infatti, è che il procedimento anagrammatico pare poi estendersi alla letteratura in lingua latina del Quattrocento italiano, ma anche alle composizioni di Pascoli.
Nonché alla poesia in lingua francese contemporanea… Tanta diffusione implica la possibilità che il procedimento non sia tale, che il carico di prove possa non tenere, a causa di un eccesso di prove. De Saussure lo comprende alla perfezione, comprende le possibili obiezioni, obietta a se stesso, ma certe evidenze resistono: più che sotto le parole, le parole sono nelle parole. Egli si interroga se l’anagramma possa costituire un elemento al di fuori del tempo storico, delle varianti che detto tempo storico promette, causa e comporta: l’epica, tra l’altro scrive, potrebbe esser nata dalla lirica e questa è un’ipotesi genetica e generativa.
Così espone una poetica che è degli antichi, ma che a me pare valga per i moderni, e se si leggono i saggi di Roman Jakobson sui proverbi russi e su Pessoa (16), dunque giocati su due prospettive diverse, pare che l’ipotesi generativa di De Saussure possa trovare una qualche conferma. Certo appare difficile parlare di legge, ma non difficile condursi dalle parti di uno scrittore che ha fatto dell’analisi del proprio procedimento un testo ad un tempo chiaro quanto criptico. Poiché Roussel, poco prima della morte, decide di svelare la provenienza di alcuni suoi scritti, il modo in cui sono nati e già qui crea una differenza: se veniamo a sapere di alcuni scritti, degli altri si tace, indizio di una fonte altra, di un altro modo di procedere.
In “Come ho scritto alcuni miei libri”, Roussel esordisce esponendo la genesi di “Impressioni d’Africa”: il punto di partenza è costituito da due frasi che si differenziano per una sola lettera:
Les lettres du blanc sur les bandes du vieux billard
(Le lettere in gesso sulle sponde del vecchio bigliardo)
Les lettres du blanc sur les bandes du vieux pillard
(Le lettere dell’uomo bianco sulle bande del vecchio predone)
Trovate le frasi, si trattava di scrivere un racconto che potesse cominciare con la prima e finire con la seconda (17) . L’orecchio e il vocabolario dello scrittore scrutano le possibilità di variazione: ora si tratta di arrivare dalla prima stringa all’ultima, attraverso altre stringhe che possiedono le medesime caratteristiche di differenza sottilissima tra loro: tale differenza è all’origine della narratività, non la decisione di esporre a priori, di raccontare, bensì di individuare qualcosa che va a generarsi di volta in volta, proprio grazie alle varianti, un racconto che deriva (e va alla felice deriva) dalla volontà di interrogare le frasi, non dal raccontare una storia determinata.
“Evidente cenno a una narratività che succede letteralmente solo dopo, in quanto indirizzata dai doppi sensi, dalle angolature di una lettura attenta alle omofonie e alle differenze che esse creano: …sistema ortgonale di ripetizioni […] figure che si formano nel linguaggio prima del discorso e delle parole”, scrive Foucault a commento (18) .
B di billard, p di pillard: la differenza scava un solco che solo il racconto proverà a appianare, se non a annullare individuando una concatenazione di vicende che, mantenendo il metodo, conduca al finale in modo coerente attraverso la ripetizione del procedimento. Il racconto non ha di progettuale che la necessità di partire da una frase per arrivare all’altra: sta allo scrittore individuare i collegamenti che intervengono, ma a posteriori. Si tratterà insomma di andare da una frase all’altra, di trovare una strada. Dunque il racconto avanza attendendo: attende che si riconoscano i passaggi, che si completi il gioco delle differenze, che le differenze minime, ma sostanziali, lo nutrano. Va da sé che la lettura in traduzione non può rendere ciò che è, come scrive lo stesso Roussel, sostanzialmente poetico, e sembra nutrirsi di stravaganze, che sono invece conseguenze logiche delle stringhe elaborate.
Poetico è anche l’altro procedimento che consiste nel generare stringhe a partire da una originaria, di cui si valuta la possibilità fonica:
Napoléon premier empereur (Napoleone primo imperatore) da cui deriva Nappe ollè ombre miettes hampe air heure (tovaglia olé, ombra briciole asta aria ora), che mette in moto una serie di possibilità narrative esposte successivamente. Cosa è accaduto? Roussel non esita a dichiarare che il procedimento è della stessa natura della rima: “création imprevue due à des combinaisons phoniques. C’est essentiellement un procédé poéthique”(19) .
Foucault parla di parole induttrici(20): esse possiedono una carica polimorfa tale da imporre più di una possibilità di gioco formativo determinato dall’orecchio: l’orecchio sente il potenziale, può leggermente alterarlo e in tale alterazione si apre la scena a nuove prospettive narrative, diciamo pure a impreviste prospettive narrative che obbligheranno poi a una redistribuzione e equilibratura dell’insieme, “trascinando l’autore in una logica di cui egli è più il momento che il soggetto”(21) .
La “creazione” dipende dalla capacità di chi traccia le frasi, di portare alla luce o smascherare, quanto in esse era nascosto o felicemente si nascondeva, potenzialità foniche che guidano a altri sensi: è da ascriversi al momento della voce, al percorso che essa opera sulle parole, indagatrice, attentissima alle sfumature, speculatrice, un’operazione per così dire archeologica, senz’altro di svelamento e là dove era un senso “finito”, l’esplosione indefinita di immagini.
I meccanismi in atto sono in modo più o meno chiaro, con più o meno densità, non solamente una ripetizione di sillabe nascoste, non solamente la figurazione d’una storia da scoprire, ma un’immagine del procedimento stesso, il quale procedimento però, benché manifestato, è difficilmente applicabile se non si sia poeti.
Se se ne scandaglia la natura però, esso non ha solo a che fare con la narratività, piuttosto si dispone a segnalare quanto comporta la lingua, quando fragili e nello stesso tempo potenzialmente infinite siano le conseguenze del nostro agire in essa: che cosa accade allorché ci disponiamo a parlare o appena dopo, se solo per un momento riascoltiamo quanto pronunciato, se solo un momento dopo, nello spazio leggerissimo di una differenza infinitesima, scopriamo quanto altro è implicato?
Il procedimento dunque “apre a una riserva lacunosa che designa e fa vedere quella cavità in cui lingua e parola si implicano l’una a partire dall’altra e non dicono nient’altro se non il loro rapporto ancora muto”(22). Esso mette in scacco il tentativo di arginare il linguaggio, di delinearne il confine di senso: è vero che il racconto giunge a una conclusione, ma resta qualcosa di più di un sospetto intorno al suo chiudersi effettivo, poiché in tale chiudersi occhieggia il resto, quel resto che irride la compiutezza e brulica di conseguenze
In che senso c’è rapporto tra anagrammi di De Saussure, il procedimento Roussel e quello di Calogero?
In primo luogo per una progettualità fondata sulle qualità foniche di una stringa o di una parola, poi il suo essere ripresa, anagrammaticamente, nel corso del testo; dunque nell’attenzione alla potenzialità, all’essere possibile di parole nelle parole, che rilancia la compositività, la sua quota di inaspettato, il suo bisogno di fuggire alla regola del progetto a priori nonché alla retorica, l’esercizio di un lavoro teso in avanti che potrebbe anche sorprendere chi ne è l’attendente, chi si colloca, come si è detto, nel punto dell’incontro: non si può non scrivere, ma non si sa ancora che cosa scrivere, forse solo un insieme di parole, nomi (di chi, di che cosa?), poi l’attesa della loro rifrazione.
Esattamente la rifrazione, le sue conseguenze: il contenuto dilatato che trova ricovero nella scrittura, ma poi, provocatoriamente svela il proprio volto mutevole e non perimetrabile.
Rimane fra me e te
Rimane fra me e te questa sera
un dialogo come questo angelo
a volte bruno in dormiveglia
sul fianco. Non ti domando
né questo o quello, né come
da materne lacrime si risveglia
di notte il tuo pianto.
Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.
Non l’eco rimbalza
due volte sulle rocce, su questo
prato, ove sono rosse, e, di rosso
in rosso, è vano il pallido velluto
ora rosa ora smosso.
Non si parla né triste né lieto;
e presto o tardi, perché a fior di labbro
gentilmente nel filo tenue dell’erba
tristemente lacerando si risveglia
la tua sera accanto, dolcemente
io ti domando.
“Rimane fra me e te”, testo di apertura di “Come in dittici”, è organizzato in quattro strofe, la prima di sette, la seconda di undici, la terza di cinque e la quarta di sei versi, costituisce un compendio del modus operandi di Calogero, il cui procedimento segue un principio di sfruttamento denso del materiale fonico, talora un principio di felice sperpero, a cui si accostano zone di insistenza dove l’azione martellante del pedale conduce al narcisismo barocco, in un senso tutt’altro che spregiativo. Si potrebbe quasi ipotizzare una maggiore comprensione del Barocco proprio attraverso il filtro di Calogero, nonché, d’altro canto, una lettura del nostro avanguardistico Barocco, passando per quanto scrive Gadda a proposito della “Cognizione del dolore”, intorno alla barocchità del mondo.
Nella prima strofa, i versi 1, 3 e 6 presentano la velare r, che non compare nei restanti: ci si chiede se ci si trovi di fronte a una voluta apparente opposizione, a una volontà distributiva e selettiva, dunque a una consapevolezza, naturalmente la risposta è affermativa. Rimane fra me e te questa sera: verso d’esordio, contiene gli elementi sonori che verranno poi disseminati in quelli successivi e subito si vuole indicare una delle caratteristiche di Calogero: vale a dire la presenza di parole, i cui fonemi, singoli o a gruppi si riconosceranno un poco ovunque, componendo per così dire il carattere sonoro dominante dell’insieme, è il caso di rimane; poi “parole-sintesi”, in cui si condensano frammenti di altre: è il caso di sera, che raduna in sé i tratti essenziali di quanto precede, la liquida r, accompagnata dalla a , la e presente in tre occasioni e la sibilante di questa.
Il primo verso si propone dunque come “materiale” di base: l’aggettivo questa è ribadito da questo nel secondo; rimane è termine di riferimento, generatore, impiantato per così dire nella intera strofa: una eco in man di domanda, in materne, in particolare, ma è visibile, coglibile, senza problemi la proliferazione. Quanto a me e te tornano con semplice evidenza, ad esempio nell’ultimo verso, poi sembrano partecipare con decisione al complesso: t e d sono decisivi nella formazione dei versi successivi, quasi, di fatto, il motore effettivo, se si pensa che la seconda persona il te nel primo verso, è il silenzioso personaggio a cui si rivolge la voce lirica dell’io.
Le dentali agiscono con decisione anche nell’esordio della seconda strofa, come generatori di tormenti e tristi. Meno evidente, ma assai importante, la già citata doppia presenza di come e di questo-a: si tratta di un rimbalzare e ripetersi che genera il quinto verso, che sembra giocare di riflesso: uno dei termini più frequenti del lessico di Calogero (esiste infatti un numero di termini destinati ad essere tra i preferiti) è eco, che compare in come, si potrebbe dire che come è anagramma di eco, è cioè una delle possibilità che la triade e-c-o, offre alla sensibilità del poeta di giocare (seriamente) con essa: si sottolinea nel poema la frequenza del gruppo eco, come. Destino assai simile quello che lega dialogo a angelo e essi a dormiveglia e risveglia, per via del gruppo g-l-i a cui si aggiunge la vocale a. Potrà sembrare forzatura, ma non è tale, indicare in lacrime, nel penultimo verso della strofa, una parola-sintesi, compressione dei primi due versi.
Come già detto, si ipotizza che i frammenti vengano costruiti in prima istanza sulla base della/delle sonorità, ovvero sulla base del ricarico e della forza dei fonemi o dei gruppi fonematici di esordio: successivamente la materia di senso, diciamo la dimensione per così dire contenutistica, che si organizza in forma di dialogo, talvolta di monologo, invero è un dialogo in cui l’altro non replica, se non in forma fantasmatica che prende l’aspetto del ricordo, altro termine del glossario specifico.
Tale forma dialogico-monologante è classica se si va a Petrarca, ma anche a Leopardi, essa è della lirica, e della voce di un io solitario e filosofico.
La seconda strofa presenta un ipermetro proprio nel centro: evidentissimo il richiamo a Leopardi, che ritorna nel poema a più riprese, attraverso scelte lessicali volutamente esposte. Ecco, posto al suo inizio, si riconosce in accade, poco più avanti e sarà eco nella terza strofa. La strofa deve raccogliere, sintetizzare la precedente e espandersi nella successiva, pratica esaltata nella terza strofa che è seicentesca, se non tassiana, tutta sonorità, pressoché indipendente dal senso, divertimento serissimo.
Ma torniamo alla seconda: dei primi cinque versi, tre iniziano con la sibilante s seguita rispettivamente da e, i e u , a cui vanno aggiunte i di Se i, e di Si vela e o di su l’orizzonte. Il primo verso, come già indicato, si raccorda con m e t di me e te della prima strofa, ne costituisce il trait d’union.
Interessante il secondo verso dove il termine d’esordio, edera, trova eco in quello di chiusura colora: è espediente piuttosto frequente in Calogero, che sceglie consonanze, assonanze e rime interne piuttosto che esterne, diciamo che esse vanno in lui intese come altro, piuttosto ripercussione, pedale, insistenza o persistenza del suono o dei suoni. Si preferisce usare il plurale: non è mai uno solo il suono dominante, due, anche tre, contemporaneamente, si tratta, per il compositore, di educare la loro presenza, di regolarla. Si segnala che edera diventa ell’era: ellera è edera nell’italiano antico e Calogero riprende l’espediente petrarchesco «Laura / L’aura».
Il terzo verso deriva dal secondo e dal terzo della prima strofa e viene ribadito nella seconda parte della strofa (vv. 9 e 10): vela e duole sono sintetizzati in viola, che assieme ad essi partecipa alla sintesi di dondola a cui non è estraneo nube. Dondola nube odorosa introduce alla zona concettistica di Calogero, è il risultato di una sensibilità che proviene da una tradizione barocca di meraviglia, di effetto, non estranea al concettuale delle avanguardie. In fondo l’associazione di quanto sembrerebbe distante, che qui prende le mosse da una intenzione, si ribadisce, di natura fonica. Odorosa, collegato a colora, trova eco in carnosi, che sono veli e velli, la cui origine è in Si vela o duole una viola ; qui bruma ricalca brina, entrambe sanno di bruno (I strofa, v. 3). Nel verso successivo, così largo, si ascolta in assalgono il ritorno di dialogo (I, v. 2). L’ultimo verso è una sintesi: in tumide c’è qualcosa della nube e della bruma; vene delle vie le ore volge ai carnosi veli.
Interessa la terza strofa a proposito di quanto esposto intorno al barocchismo: di fatto non si è molto lontani da Marino (probabilmente da D’Annunzio, ma si preferisce, anche in rapporto all’insieme, il primo): alla vocale dominante o, unita alla c di eco, risponde la liquida r, in una corona brillantissima dove evidente è il compiacimento per l’esito che è lo smosso a cui convergono i suoni nel loro insieme: smosso è parola-sintesi. Non la necessità di esporre un significato, piuttosto quella di seguire il flusso sonoro stanno a guidare l’azione del poeta. Si aggiungerà però, che l’esito non è estetizzante, ma reclamato dalla intenzione intima di un “qualcosa da dire”, della esigenza del dire, del pronunciare.
Naturalmente eco: qui è a tutti gli effetti realizzata, la strofa è l’esemplificazione di quanto produce l’effetto eco che incontriamo in rocce, evidentissimamente, che diventa poi, dopo ove sono, rosse per effetto della presenza della sibilante, e in su questo; le vocali vengono ribadite in ove. Il rimbalzo, come movimento, qui vocale, è nell’artificio della ardua pronuncia del primo verso che inizia con il difficile non, rispecchiato nel gruppo mb di rimbalza, poi continua con l’affollarsi della liquide nel secondo e nel quarto: quest’ultimo accosta le liquide alle sibilanti. L’ultimo verso è sintesi. Dell’ultima strofa solo parziali annotazioni: il non iniziale è lo stesso situato nel centro della prima, ribadito all’inizio della terza; ritorna l’aggettivo triste, che si sviluppa in tristemente, a cui fa eco dolcemente, due avverbi come nella seconda strofa. Forse non inutile segnalare sera nonché risveglia, già presenti nella prima, alla pari del conclusivo domando, che riecheggia nel centro, l’iniziale rimane.
Il cerchio dunque pare chiudersi, le parole sono nelle parole di un sistema che ruota nello spazio aereo dei suoni e che da essi trae materia “narrativa”, quella che forse prima, in una fase di riflessiva trasognanza, ha trovato nei suoni la memoria.
1) N.Frye, Anatomia della critica TO 1969.
2) R.Roussel Locus Solus TO 1975
3) Si legga quanto propone Harold Bloom nell’Angoscia dell’influenza MI 1986.
4) In Igitur, Divagations, Un Coup de dés, Paris 1976
5) Si pensi all’ombrello e alla macchina da cucire su un tavolo di anatomia, proposto da Lautréamont nei Canti di Maldoror, MI 1968.
6) Così nell’edizione della Lerici.
7) In Come in dittici, MI 1962, pag.115.
8) ibidem
9) ibidem pag.107
10) ibid.
11) ibid. pag.41
12) G.Bachelard, L’air et les songes, Paris 1943.
13) In Come in dittici, MI 1962, pag.159
14) Le parole sotto le parole, Il Melangolo 1982.
15) Ibidem, pag.121: che è possibile, credo, considerare il costume poetico degli anagrammi (una forma sociale di poesia, affatto criptica e piuttosto condivisa cioè, benché di origini lontane) in modi diversi, senza che un modo escluda l’altro.
16) R. Jakobson, Poetica e poesia, TO 1985.
17) Testo citato, pag.266.
18) M. Foucault, Raymond Roussel, BO 1978 pag. 61
19) pag. 276 Locus Solus, TO 1975.
20) M. Foucault, testo citato, pag. 71
21) Ibidem, pag. 74
22) Ibidem, pag. 76
ARIANNA GIACHI
in Frakfurter Allegemeine Zeitung, Francoforte, 27 settembre 1962
«…è stata pubblicata in un volume imponente l’opera lirica di questo poeta scomparso prematuramente che apparteneva alle tragiche figure di poeta solitario che l’Italia ha sempre conosciuto sino dal tempo di Leopardi …»
LORENZO GIGLI
in Gazzetta del Popolo
«…Non si considerò un perseguitato, un incompreso e una vittima, si considerò lucidamente quel che era nella sua realtà, una mente creativa in continua tensione, un marinaio abbandonato sul bateau ivre alla deriva… Quantunque i duecento e più componimenti di “Come in dittici” abbiano apparenza di frammenti, essi rispondono all’esigenza di una costruzione unitaria, si organizzano come momenti di un poema autobiografico, in cui il dialogo metafisico si alterna col dialogo reale, col discorso ad personam che può essere talvolta una donna…»

STEFANO GIOVANARDI
Lorenzo Calogero
in AA. VV., Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, pp. 603-605, Milano, Mondadori, 1996.
Un violento analogismo, che si carica sovente di qualità visionarie, sembra spingere molto indietro l’esperienza poetica del calabrese Lorenzo Calogero, facendole addirittura scavalcare la maniera ermetica per proiettarla nei paraggi delle punte estreme del simbolismo (fra Mallarmé e Rilke, come ebbe a notare Giorgio Caproni). Ma più che un epigono, Calogero ci appare una di quelle individualità tendenzialmente “autistiche”, strenuamente impegnate nel perseguire la poesia come investimento totale di sé e della propria vita, a compenso e sublimazione di pesantissimi carichi nevrotici.
Come per Campana, o per Hölderlin, anche per lui la parola poetica brucia ogni distanza dall’intuizione originaria, sicché il processo di strutturazione del testo finisce per coincidere con lo spontaneo affioramento di materiali espressivi immediati, restituendo un’attendibile mappa dell’inconscio dell’autore e insieme escludendo ogni possibile modello culturalmente e consapevolmente accreditato. Anche il “frequente cedimento a facili sirene letterarie del linguaggio, nel quale volentieri s’intrufolano moduli e cadenze gia nell’orecchio” (e ancora Caproni a parlare) va più che altro ricondotto a una sorta di memoria involontaria, a un’enfatizzazione dell’idea di poesia che a sua volta enfatizza i lacerti di tradizione a quell’idea connessi, e che introduce in modo spesso del tutto irrelato un reticolato di citazioni all’interno di una compagine testuale solo idonea a straniarle e stravolgerle.
Del resto, che la produzione poetica faccia per Calogero da sponda al manifestarsi di sindromi nevrotiche e psicotiche sempre più gravi è dimostrato dal lungo silenzio seguito all’esordio, piuttosto precoce e di scarso valore, con la plaquette Poco suono (1936): un silenzio durato vent’anni e interrotto nel 1956 da una vera e propria esplosione creativa, concretizzatasi in ben tre raccolte -Ma questo, Parole del tempo, Come in dittici- che proponevano un universo lirico del tutto diverso da quello degli inizi, come se solo il progredire del disturbo psichico avesse infine autorizzato l’effettiva messa in opera di un linguaggio. In assenza di una qualsiasi datazione attendibile, è molto difficile stabilire se l’approdo a quel linguaggio sia frutto di un lungo itinerario nella scrittura o di un’illuminazione improvvisa: sta di fatto che la compagine stilistica e tematica delle tre raccolte risulta assai omogenea e coesa, nel suo perenne incardinarsi su una incontrollata proliferazione metaforica e nel suo costante ribadire lo iato vertiginoso fra una vita giocata a perdere sul filo di una marginalità sempre più vicina alla segregazione e lo slancio assoluto verso un altrove metafisico fatto di parvenze-essenze continuamente cangianti e delusivamente inafferrabili. «Non solo – scrive Caterina Verbaro – vi è negato il permanere, la traccia, la consistenza, ma anche la visibilità: solo “chi ebbe cigli chiusi e alla brezza / fu sveglio” può accedervi (…)
(…)Quale che sia il percorso precedente, è comunque indubbio che dal 1956 al 1961, anno della morte, la produttività del poeta è altissima. L’abbondante materiale inedito rinvenuto dopo la sua scomparsa, fortunosamente e approssimativamente suddiviso in raccolte dallo stesso Calogero (i titoli progettati erano Sogno più non ricordo e Avaro nel tuo pensiero), è ancora in attesa di una pubblicazione esaustiva e criticamente accertata, nonostante i due volumi di Opere poetiche apparsi postumi a cura di Giuseppe Tedeschi presso l’editore Lerici (rispettivamente nel 1961 e nel 1966). Di assoluto rilievo, ad esempio, sono i componimenti riuniti nel primo di tali due volumi sotto il titolo Quaderni di Villa Nuccia, stesi fra il 1959 e il 1960 e accolti in un brogliaccio manoscritto accanto ad appunti indecifrabili e a frammenti di scrittura privi di senso comune. Sono testi che risalgono al soggiorno in una casa di cura presso Catanzaro e che inopinatamente dimostrano l’apertura della poesia di Calogero alle misure e ai toni del canzoniere amoroso, come se nella fase estrema della vita, nell’intensificarsi delle angosce che lo avrebbero condotto di lì a poco a una morte che probabilmente è un suicidio, il poeta avesse voluto recuperare la nozione più piena del dire lirico, scandagliandone i confini quasi in cerca di una zona di sicurezza: e avesse in questo sperimentato fino in fondo l’ipoteca fatale dell’afasia, dell’abbattimento del senso, dell’inadeguatezza genetica del linguaggio, ricongiungendo nel segno della sconfitta definitiva quel circuito di poesia e vita che si era illuso di poter spezzare».
LORIANO GONFIANTINI
in l’Avanti!
«Come in dittici rivela il punto più maturo della poesia di Calogero, una pienezza lirica sconcertante…»
JO GUGLIELMI
in Action poétique, Grenoble
«…egli non entra nella poesia, non si mette a scrivere come quei comodi spacciatori di parole che ben conosciamo. No, Calogero si è trovato davanti alla poesia come di fronte all’ultimo rifugio, il solo modo di manifestarsi a se stesso, l’unica possibilità di vita… »
MARIO GUIDOTTI
in Il Quotidiano
«…il trittico ispiratore (la natura, l’amore, la morte) scompare in allucinata e al tempo stesso razionale e meccanica operazione formale; il temperamento esasperatamente drammatico si scioglie e si realizza in parole e immagini che sembrano appartenere a un ermetismo postumo, ma che sono i prodromi di una possibile poesia contemporanea…»
RUGGERO JACOBBI
Secondo tempo di Calogero
in La provincia di Catanzaro, Speciale Lorenzo Calogero, II, 4, luglio/agosto 1983, p. 33
Secondo tempo della poesia di Calogero è quello che trasporta dalle prove giovanili ai rocciosi, disperati frammenti della sua ultima stagione, e che si può esemplificare nelle pagine di “Ma questo” e di “Sogno più non ricordo”. Certamente, c’è anche “Come in dittici”; ma quest’ultimo libro, essendo stato dagli editori abbinato ai fortunatissimi “Quaderni di Villa Nuccia” ha avuto commenti e riferimenti, più o meno distesi, quasi sempre fondati su una sorta di concordanza finale fra esperienze poetiche apparentemente diverse. Le due raccolte che abbiamo prima citato mancano ancora di un’integrazione (l’altra raccolta “Avaro nel tuo pensiero”) e sono state pubblicate insieme, coprendo il periodo dal 1950 al 1958, con un vuoto nel mezzo (1954-1955) che va dunque colmato con le pagine di “Come in dittici” e con quelle dell’inedito.
Ad ogni modo “Ma questo” e “Sogno più non ricordo” sono più che sufficienti a fornire i dati di quel «secondo tempo», e anzi lo spingono con gran forza fino alla vigilia del terzo e ultimo. Inoltre esse presentano in modo abbastanza spiccato gli elementi caratterizzanti in Calogero quello che si vuole «letterario» contro quello che diremmo più scopertamente «confusionale».
Non che manchi un filo di unità perpetua nell’opera del poeta, anzi essa si presenta con vertiginosi aspetti di continuità tematica e persino con ricorrenti ossessioni verbali, ma certo con queste due raccolte è più difficile operare quell’abbinamento che si diceva, e che un po’ è frutto della circostanza editoriale, un po’ della presenza in “Come in dittici” di talune pagine meno chiuse, più abbandonate.
Sicché anche gli editori rilevano un certo principio di «fiuto», una giustificazione per il disordine cronologico in cui presentarono l’opera sfortunatamente interrotta. Non si tratta dunque di operare partizioni nel lavoro fedelissimo del poeta, ma di mostrare per minimi esempi la stagione in cui esso voleva organizzarsi coscientemente in un canzoniere. Il che corrispondeva ad una tipica tradizione italiana e petrarchesca, di variazione dell’infinito, di approccio inesauribile a una verità.
La poesia di Calogero ha questa costanza profonda, questa rispondenza a una vicenda interiore, che viene continuamente mascherata dalla timidezza dell’uomo e come esorcizzata da una determinazione letteraria che aspira all’assoluto, sicché i dati psicologici e personali, appaiono come improvvise macchie di sangue su di un tessuto grigio, neutro, che aspirerebbe persino ad una impassibilità parnassiana.
Soltanto in “Quaderni di Villa Nuccia” questo tessuto liscio e uniforme, si rompe non sporadicamente ma totalmente e sempre. Sottolineare soltanto l’importanza dei Quaderni significa però accreditare una leggenda di Calogero uomo emarginato e poeta maledetto, che solo in parte è vera e che nella maggior parte dei casi contribuisce a fare di lui unicamente un caso umano, addirittura patologico, e in un certo senso diminuisce la sua figura di poeta o almeno ne annulla la indiscutibile unità d’ispirazione e di linguaggio.
Già abbiamo sofferto abbastanza con le leggende di Campana e di Michelstaedter per dover metterne in circolazione un’altra, a rischio di accreditare un’ennesima volta i miti romantici e byroniani, che si credevano spenti con le ultime affermazioni dell’individualismo dannunziano e in genere della più smaccata coincidenza arte-vita. «Letteratura come vita» rimane uno dei miti essenziali della letteratura del Novecento, e certo fu per Calogero, come tutta la lezione dell’ermetismo, un punto di riferimento esemplare, ma non è possibile perpetuarla nei modi esatti in cui essa si presentò in un’epoca di segreto morale e di assenza del dibattito democratico sui temi della cultura.
Del resto, una rilettura non settaria dello stesso testo di Carlo Bo che portava quel titolo potrebbe riservare non poche sorprese a lettori d’oggi, oppressi dalle formule di uno storicismo troppo spesso semplicistico e schematizzante. Letteratura come vita non significa un’adesione minore e quotidiana del testo alla biografia, come appunto è uso nella linea che va dall’eroismo dannunziano all’esibizionismo pasoliniano, e che vorrebbe includere il vittimismo calogeriano; letteratura come vita significa anche soprattutto una totale risoluzione della biografia nel testo, il quale diventa una verità, la sola vera completa definitiva biografia dell’autore. Né potrebbe essere diversamente per una filosofia delle lettere che mira essenzialmente alle regioni dell’interiorità e privilegia il momento rilevatore della «parola». Ma anche in termini di un minore individualismo, d’una minore acquiescenza dinanzi alla metafisica, della persona – quali sono i termini istituiti da questo dopoguerra di engagement e di nuova razionalità – resta fondamentale il primato del «testo»; altrimenti non si comprenderebbe la fatica, ad esempio, degli strutturalisti (fra i quali si ritrovano in eguale misura, ex-ermetici e neo-marxisti) a delimitare il campo letterario come campo di una semantica sufficiente a se stessa, o di un sistema di segni capace di rimandare continuamente alla propria vitalità pura.
Serve questa ingrata divagazione a cogliere Calogero nella sua piena responsabilità di poeta lirico e di letterato, nella sua difficile e contraddittoria, ma ineliminabile, compattezza di ricerca linguistica, dove la presenza del dato biografico è certo una forza di base, ma non lo è né più né meno che in qualsiasi altro poeta autentico. Perciò si insiste, in questo approccio all’opera calogeriana, soprattutto sulla parte più volontaria ed elaborata del suo lavoro, quella contenuta nel secondo volume delle Opere poetiche così dimenticato da esegeti, appunto perché uscito dopo l’esplosione del «caso». Si sa che i «casi» durano poco: una volta sfruttata la notizia, una critica soltanto giornalistica – è chiaro che il giornalismo vive soprattutto di notizie – non aveva più nulla da dire e anzi rimaneva infastidita dinanzi a un volume di pura letteratura, (la spregevole letteratura) e senza pepe aneddotico, senza possibilità di scandalo. Ricondurre Calogero al suo destino di poeta, cioè di elaboratore di parte e facitore di testi, può anche promuovere il rischio di cimentarne la portata storica, di farne in qualche modo un epigono: non è ad ogni buon conto il solo modo di rispettarne il lavoro. Perché a questo lavoro egli ha sacrificato la propria vita, e non è giusto oggi fare proprio il contrario di ciò che egli ha voluto, cioè sacrificare alla sua vita il senso compiuto del suo lavoro.
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«Con la pubblicazione delle Opere Poetiche di Lorenzo Calogero la letteratura italiana del nostro secolo si accresce, non di un poeta interessante in più, ma di un poeta eccezionale che – ne sono sicuro – a distanza di qualche decennio sembrerà a tutti uno dei protagonisti più alti della vicenda espressiva che dura dal Carducci a noi…»
ARIANNA LAMANNA
Lorenzo Calogero. Pensieri e poesie, il silente canto di una vita
articolo apparso sulla rivista Nuovi Argomenti, edita da Mondadori, n° 37, gennaio-marzo, 2007.
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STEFANO LANUZZA
Il nihilismo patetico di Lorenzo Calogero
da La provincia di Catanzaro, Speciale Lorenzo Calogero, II, 4, luglio/agosto 1983, p. 44
Mossa, sotto l’occhio critico del lettore, da un “nido” emotivo brulicante di immagini, la scrittura di Calogero si espande – emotivamente, appunto, e con grazia dimessa – in direzioni espressive ora simpatetiche l’una rispetto all’altra, ora contraddittorie e dissonanti. Dissonanza e contraddittorietà funzioneranno a loro volta come centri propulsivi di nuove immagini e innesti di ulteriori processi generativi. Si è insomma di fronte a una sorta di tecnica musicale che può sconcertare ma anche indurre suadenti fascinazioni: si ascoltino così, nella lettura dei versi calogeriani tra sincopati effetti di senso del poetico e strazi sintattici, il tipico “mormorio” della scrittura automatica e concentrata, un lieve e intermittente scampanellio descrittivo interrotto da orfici flauti dolci e questi da esistenzialistiche rullate profonde e queste ultime, ancora, da inquieti brontolii, chiocciolii e sonagli da sfiniti suoni d’acqua (…).
MARIO LUZI
Per Calogero e chi lo ama
in La provincia di Catanzaro, Speciale Lorenzo Calogero, II, 4, luglio/agosto 1983, pag. 5
Ma era stato difficile in quel primo stupefatto e doloroso repêchage d’un’esistenza incredibile e del suo incredibile rispecchiamento letterario trovare un punto di osservazione critica e prospettica efficace. Calogero ne uscì come una creatura dell’ombra, una piovra che tendeva i suoi tentacoli nella sua stessa solitudine e nella sua stessa impotenza: monstrum insospettato nonostante, le sue sporadiche apparizioni pubbliche, piuttosto che poeta definitivo.
Confesso che anche io aspetto questo nuovo contributo per formarmi un’idea vera e propria di Calogero: finora infatti ho più che altro ceduto all’alternanza di meraviglia e di sgomento che da la massa della sua scrittura quando la si osserva nella sua composizione filiforme e la si segue nel sue continuum o si cerca di farlo. Sintesi e ricapitolazione (in immagine, oggetto, occasione, evento «principe») non sono pensabili in un’esistenza tutta al negativo e in una mente ininterrotta ed equiparatrice quali ebbe Calogero. Ecco perché stati intensissimi sono correlati a capillari circostanze dell’emozione e del pensiero; e il tutto si intreccia in una proliferante vegetazione che ammalia e soffoca. Credo che Calogero sentisse il silenzio che si era abbattuto su di lui (o che aveva cercato?) come una sciagura, anzi come la somma delle sue sciagure: lo ascoltò, lo analizzò, lo riempì tutto quanto di una fitta trama di sensi e infrapensieri ai confini con la vertigine: ed erano essi stessi doni e castighi di quel silenzio. Perché tutto questo ritrovi la superiore forma che non può essergli mancata c’è bisogno di esplorare e di andare a fondo nella «follia» del poeta Lorenzo Calogero.
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«Le poesie di Calogero sono un episodio notevolissimo della nostra storia…».
GIUSEPPE ANTONIO MARTINO
Testo tratto dall’articolo apparso sul n. 93 di “Quaderni del sud-Quadreni Calabresi”, inserto n. 20, 2002.
Melicuccà è sempre stato l’unico posto in cui Lorenzo Calogero sia riuscito a trovare un po’ di tranquillità
È stato scritto che i suoi «rapporti con il paese non sono stati pacifici» e che la sua figura «non poteva non suscitare irrisione, incomprensione». Non vogliamo negare che la maggioranza dei concittadini del poeta non volesse e non potesse comprendere che un medico, tra l’altro da tutti considerato bravo, abbandonasse la professione per vivere perennemente avvolto in un pesante cappotto nero, con i pantaloni privi dei bottoni, ma è pur vero che i particolari della sua vita triste e martoriata, morbosamente offerti da tutta la stampa nazionale, hanno a volte distolto l’attenzione dall’itinerario che ha fatto di lui uno dei poeti più autentici del Novecento. La figura di Calogero è davvero senza ombra ed è quella di un uomo che, nella comunità umana, fa le cose bene anche nel periodo in cui fa il medico: ha un alto concetto del valore e della dignità della persona pure se trova gli altri tanto diversi da sé. Senza ribellarsi, ascolta amici dotti e contadini ignoranti che lo esortano a fare il medico, ma si sente sempre più incompreso e solo; per sua libera elezione sceglie di restare presso «il suo focolare spento». Nella solitudine l’esistenza si logora sempre più, il suo debole fisico si fiacca del tutto, ma egli non desiste: quanto più si rifugia nella solitudine, tanto più cerca nella poesia il significato della sua vita, che cosa è l’uomo, attraverso una produzione poetica sempre più raffinata, anche se tormentosa e complessa. Calogero non è l’unico intellettuale meridionale che non sia riuscito ad ottenere il giusto riconoscimento: gli fanno buona compagnia gli scrittori Fortunato Seminara, Francesco Perri, Mario La Cava, il poeta Franco Costabile e tanti altri. Pochi sono coloro che, come Leonida Repaci o Saverio Strati, inseriti in contesti culturali diversi da quello calabrese ed in grandi circuiti editoriali, hanno ottenuto, ancora in vita, la soddisfazione di vedere riconosciuti i propri meriti. Calogero, deluso, parla spesso della inanità della sua vita, non della vita degli altri, e quanto più l’orizzonte si incupisce intorno a lui, tanto più cerca di scrutare tra le ombre e solo un angelo tra di esse gli sembra riposare: la morte. Cerca di raggiungerla, a volte tentando il suicidio, ma poi, passata la tempesta del momento, si fa coraggio e riprende la vita e, sempre nella solitudine, cerca «i mezzi di una sempre più efficace espressività» che gli permettano di esprimere il suo tumulto interiore. Con una costanza adamantina, in una solitudine sempre più intensa e quanto più intensa incompresa, cerca la via di realizzarsi come poeta, secondo le sue inclinazioni, le sue intime esigenze: non accetta compromessi, ha piena coscienza delle sue doti ed è attraverso di esse che intende realizzarsi. Nell’introduzione a Parole del tempo egli esprime la sua ansia di realizzarsi soltanto tenendo «conto dello svolgersi e dell’accrescersi dell’attività mentale verso l’espressività … esiste un metodo ed un sistema espressivo … che, realizzandosi, rappresenta il modo attraverso cui si giunge ad una sia pur limitata verità». Tra i concittadini ai quali è consentito varcare il cancello della sua casa, ermeticamente chiuso, il Prof. Giuseppe Fantino, uno tra i primi critici che abbiano tentato di analizzare l’opera calogeriana, lui che ha sofferto con altrettanta violenza, lo esorta a credere nella possibilità di reinserirsi nella società per una vita irripetibile e che, quindi, va vissuta. Giuseppe Fantino, ancor prima della morte del poeta e dell’esplosione del “caso letterario”, nonostante la non poca diffidenza che circondava questo singolare poeta, apre la critica all’opera di Lorenzo Calogero con un breve saggio in cui definisce l’opera del Nostro «uno snodarsi continuo di immagini in un paesaggio senza respiro» e riteniamo che questa sia una delle migliori definizioni della poesia calogeriana. La verità su chi fosse Calogero nel suo ambiente la dà lo stesso Fantino, in un altro e più completo saggio sull’amico: «… alcuni, in pieno realismo, hanno fatto di lui un poeta maledetto. Invece quel che appariva a prima vista era la stoffa del buon figliolo, e che il maudit esistesse in lui non voglio negare, ma non era quella parte che tutti conoscevano».
La poesia
«Crede nella poesia come ad una necessità per lo spirito e la soffre quasi fisicamente … La sua opera, se raccolta in volume, potrebbe offrire il panorama di una vita veramente vissuta». Con queste lapidarie parole, l’editore Centauro presenta, in un’antologia collettiva di dieci poeti, pubblicata nel 1935, sedici poesie del giovane Lorenzo Calogero.
Quelle poesie, scritte molto probabilmente tra il 1932 e il 1933, sono contemporanee ai versi del volumetto Poco suono, pubblicato nel 1936 presso lo stesso editore. Allo stesso periodo appartengono le raccolte 25 poesie e Parole del tempo, pubblicate dal poeta, a pagamento, presso l’editore Maia di Siena, nel 1956. In queste prove giovanili Calogero si sente ancora: «… frumento/ che giace sepolto/ nella terra/ per crescere,/ per diventare un mare di spighe». Ha una fiducia incondizionata nella poesia e nelle sue personali possibilità di successo e quel Dio tante volte invocato dalla madre non lo ha ancora abbandonato: «La legge di Dio/ è penetrata nella mia profonda/ mia intima carne/ come acciaio rovente». Incontriamo immagini che presto lasceranno il posto alla tristezza più cupa, immagini dei luoghi ove il poeta consumò la sua esistenza: «Questi colli rugiadosi e sereni/ al lume della luna/ tremano, tremano i terreni/ boschivi incolti. Lassù sulle zolle/ bruciano i sarmenti./ L’aratura avviene/ sotto i ferventi/ raggi del sole». Oppure: «Campagna, boschi ombrosi/ ove s’infiltrano le serpi, / rimescolio di sole fra i bruni rami, / foglie cadute per terra/ saettate dai raggi del sole./ Radunio di voglie scarlatte sento io/ dove si nasconde la lepre/ e il baco bruca la foglia del gelso./ Paesaggio di fiaba!».In questi versi, nei quali è ancora presente «l’infinita brama di essere qualcosa», a volte, non manca lo sconforto e, man mano che gli anni passano, la delusione si accentua sempre di più e il volto della morte incomincia ad apparire con una certa insistenza: «Oltre la morte non si può andare./ Non si dorme, non si ama./Si riposa infinitamente./Una lama/ di coltello/ è la mia vita/ ripiegata su se stessa/ ne la infinita brama/ di essere/ qualcosa. / Quando andrò con passo misterioso/ verso la scura notte/ del sentimento/ invocherò la morte.» Talvolta è possibile scorgere la voce di un uomo deluso per non aver ricevuto un briciolo di quella soddisfazione che pure continuamente cerca: «Datemi quel tanto che mi spetta/ e me ne vada:/ ha le labbra arse secche:/ schiume di cavalli./ Sono vano per troppo aspettare./ Sento la mia pupilla affogare/ in un labile pianto/ Tendetemi la mano/ ed accoglietemi nel grembo vostro:/ mai desiderai la morte/ come in questo momento. Nei momenti di sconforto, che diventano sempre più frequenti, è possibile scorgere immagini che caratterizzeranno l’opera matura di Calogero: «Ingente fiumana di uomini siamo/ strappata alla nostra sorgente/ di vincitori e di vinti che per l’erta scoscesa di un monte/ ci affatichiamo per scorciatoie malcerte e non vinti. / Sempre/ tendiamo di giungere/ solo ad una riva serena/ dove non domina vento e bufera» e ancora: «Non so più quanto né come/ ho perduto e svanito il ricordo/ d’una vita presente che accordo/al mio lugubre pesante nome». L’influenza ermetica è evidente in queste prime prove di Calogero che vive ancora, anche se con sofferenza, nella realtà: è in continua attesa, tormentato, ma nella speranza che il sogno della sua vita si possa realizzare: «Sempre per qualche porto/ affiorando vado/ portando i miei lamenti,/ anche se il tempo e il sogno/ mi portano in confuso/ tante leggiadrie». Non si ha notizia di una produzione letteraria di Lorenzo Calogero nel periodo che va dal 1935 al 1946; è probabile, come ipotizza Caterina Verbaro, che il poeta, in quel periodo, abbia cercato la strada della ‘normalità’ e si sia impegnato nella professione, tanto da accentuare quelle patofobie che lo tormenteranno per il resto della sua vita, ma egli stesso, in una lettera a Vittorio Sereni, afferma che la professione di medico ha sempre rappresentato «una distrazione per la ineliminabile noia della vita» e ci è dato pensare che quel periodo sia stato fecondo non meno della fase giovanile e di quella della maturità e che, forse, la sua produzione non è stata tutta diligentemente conservata proprio perché il poeta ha visto fallire i molteplici tentativi di pubblicazione e perché è stata così vasta da rendere difficile un’accurata conservazione.
La poesia di Lorenzo Calogero diventa originale con le liriche contenute nel volume Ma questo …, scritte tra il 1946 e il 1950, nelle quali il periodare diventa tormentato, irreale ed annuncia i toni che acquisterà nel volume Come in dittici, pubblicato nel 1956 con una prefazione di Leonardo Sinisgalli (primo autorevole giudizio sul poeta di Melicuccà). Sinisgalli definisce quella di Calogero «opera di difficile lettura», confessa di aver fatto fatica ad assuefarsi «ad un congegno espressivo un po’ dissueto», ma riconosce che «un’opera così serrata non può essere il frutto di illuminazioni improvvise. » Il poeta si rifugia nel sogno, rifiuta i compromessi con il reale ed i suoi versi diventano l’essenza della sua stessa esistenza. I versi di Come in dittici, scritti tra il 1954 e il 1955, negli anni che precedono il suo definitivo ritiro a Melicuccà, «sono un continuo monologo»: in essi il poeta si rivolge sempre a se stesso, martellando «le parole di continue domande senza risposta». Il titolo di quest’opera può essere considerato una spiegazione a quel “tu” che, scandito a intervalli ritmici, pervade ogni verso; un “tu” ossessionante che riteniamo sia lo stesso poeta, l’altro assente, il simbolo dell’incompiutezza che Calogero sente dentro di sé e che non poteva essere meglio identificato se non dal dittico che esprime proprio la dualità. La raccolta si apre con un intimo dialogo tra il poeta e l’altro se stesso al quale, «né triste né lieto … a fior di labbro», narra i suoi tormenti e «dolcemente» domanda il senso della sua esistenza, della sua sofferenza. Né ricordi né sogni troviamo più in Calogero: «Ecco quanto di tanta speranza resta/ o fugge rapido e semplicemente,/ silentemente accade.»
Tutto ciò che resta delle speranze del poeta «se ne va veloce, «fugge rapido», si annulla nel breve attimo della vita di una viola o nel minuto irripetibile in cui la nube dondola sull’orizzonte. Nel «fugge rapido» c’è ancora un’ombra di rimpianto del poeta che vorrebbe fermare quella fuga e trattenere quell’attimo»; in quel «silentemente accade» c’è tutta la tragedia di Lorenzo Calogero che non riesce a trovare l’utilità della sua vita sacrificata, il senso del suo essere poeta: i suoi versi, rifiutati dagli editori, non riescono ad essere parola viva, messaggio d’amore, giustificazione della sua esistenza di eremita. Tutto avvenne senza intenzioni, senza volontà «di prendere presagio»: «Se guardo e mi volgo intorno/ non era volontà di prendere/ presagio … /Imparo così/ di fronte ad una fievole luce chino/ il fievole declino del silenzio/ della vita.»
Del periodo 1956-1958 sono le raccolte Sogno più non ricordo, pubblicata sul II vol. di Opere poetiche, e Avaro del tuo pensiero, la cui pubblicazione avrebbe dovuto avvenire sul III vol. della stessa collana “Poeti europei”. Nel 1962, con la pubblicazione del I vol. di Opere Poetiche, lo scoppio del “caso letterario” suscita un brulichio di interventi che, se non provenissero da personaggi al di sopra di ogni sospetto, potrebbero sembrare pubblicitari: «Fu dotato di un reale temperamento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore che gli fu negato in vita» (Eugenio Montale); «Lorenzo Calogero, con la sua poesia, ci ha diminuiti tutti» (Giuseppe Ungaretti).«Calogero ne uscì come una creatura dall’ombra, una piovra che tendeva i suoi tentacoli nella sua stessa solitudine e nella sua stessa impotenza: monstrum insospettato nonostante le sue sporadiche apparizioni pubbliche, piuttosto che poeta definitivo». Così Mario Luzi parla del “Caso Calogero”.
Cosa contiene, di tanto interessante da scomodare Montale e Ungaretti, quel primo volume di Opere poetiche? Dalle mura di una clinica psichiatrica, “Villa Nuccia”, «un grafomane» a cui non si fa mancare carta e penna per tenerlo calmo, Lorenzo Calogero, lancia il suo ultimo messaggio al mondo. Centosessantonove liriche scritte su trantacinque quaderni, un intricato susseguirsi di versi che vorrebbe chiamare Canti della morte: forse sente dentro di sé la vicinanza della fine. Per due volte, in passato, aveva tentato il suicidio, ma poi passata la tempesta, aveva ritrovato il coraggio di lottare; ora la parola “morte”, incontrata migliaia di volte nelle sue poesie, incomincia ad assumere un significato diverso che diventerà chiarissimo nell’ultima poesia vergata dalla sua mano: “inno alla morte”. E’ ormai pienamente consapevole della sua posizione nel mondo: «Forse parlo da solo e con me solo/ con l’esistenza umana;/ o oggi riecheggia un assolo/ la tua triste realtà di esistere». Forse la consapevolezza del suo stato lo porta a cercare un altro interlocutore e lo trova in un’infermiera, Concettina: a lei il poeta dedica il maggior numero delle poesie di questa raccolta. Così la descrive: «Tu avevi la lievità delle tue ciglia/ sparse. Forse un nome, un murmure/ soleva additarti –Tu seduta sopra una sedia,/ sotto i grandi faggi, vespertina – e distrasse / dalla tua chiarità/ che si ritrasse.»
Nei quaderni di Villa Nuccia si definisce “poeta” e si ha l’impressione che quella semplice infermiera sia riuscita, con il suo sguardo, a fargli scoprire il significato della parole “amore” e trova la forza di pronunciare, per la prima volta, la parola “felicità”: « … La felicità di tempo in tempo si aduna/ ne la forma felice del tuo sonno …». È felice e chiama «la morte come si fa di una cosa amica che per tutta la vita ci ha accompagnato e fa parte di noi»: «… Forse io ora esulto/ ed imploro morte a piene mani». Quella felicità sembra svanire, però, appena lo sguardo di Concettina viene meno e in pochi versi traccia, con estrema lucidità, tutta la sua vicenda umana: «e sembra un sogno, ma non ho nessuno./ O anima, o madre dei poeti/ e al tuo benigno regno, io poveruomo,/ forse nessuno. E languisco nelle tenebre/ che mi ha lasciato il tuo smaltato/ smalto …»
Manca ormai poco all’epilogo della sua vita che concluderà inneggiando alla morte, liberatrice dalle pene del vivere, su un foglio di carta lasciato sulla scrivania: «Ma non m’interessa più della vita./ Oggi mi curo della morte./ Fra poco e alla svelta morrò,/ perché anche tu con me sul lago/ verrai domani. E la pelle è adunca/ o si screpola appare sbadiglia./ Con te tergiversare non vale una lunga pena./ Poco m’interessa ella -;/ ora vergine sbadiglia/ e il sangue è fluido o è la medesima cosa/ Tu come un giunco fresco/ hai messo alle nari.»

EUGENIO MONTALE
Attesa per Calogero
in Corriere della Sera, 14 agosto 1962, poi pubblicato col titolo Un successo postumo, Mondadori, pp 321-325, Milano, 1976
Lentamente, filtrando attraverso la rumorosa pubblicità di altre manifestazioni a sfondo letterario, e venuto in luce un nuovo «caso»: il caso di Lorenzo Calogero, poeta calabrese morto lo scorso anno, appena cinquantenne, completamente sconosciuto in vita ed oggi non solo accolto nella collezione «poeti europei» dell’editore Lerici, ma salutato con commossa ammirazione da un gruppo di poeti e critici che si contendono l’onore di averlo scoperto. Il volume apparso, “Opere poetiche”, contiene circa quattrocento poesie e sarà seguito da un altro: almeno quindicimila sono i versi che il Calogero ha lasciato, in parte già pubblicati presso editori semiclandestini, in parte inediti. Non sappiamo ancora se il nuovo caso avrà quei caratteri epidemici che contraddistinguono i veri casi letterari o se sia piuttosto un tardivo atto di giustizia, un rimescolamento d’acque che poi torneranno a calmarsi: quel che sembra certo è che il medico calabrese Lorenzo Calogero, nato a Melicuccà (Reggio Calabria) nel 1910, morto in quello stesso paese, in circostanze poco chiare, dopo due tentativi di suicidio compiuti nel ‘43 e nel ‘56, fu dotato di un reale temperamento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore che gli fu negato in vita. Il problema immediato sarà forse quello di comprendere i motivi che hanno ritardato l’attuale riconoscimento; e poi, ma più tardi, di definire entro quali limiti l’apporto del Calogero alla poesia italiana del nostro tempo debba ritenersi positivo. E diciamo subito che in questa breve notizia informativa il problema sarà lasciato aperto perché la poesia vera, e più che mai la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento.
Del Calogero sappiamo molto, se non tutto, per merito di Giuseppe Tedeschi, che ha scritto la prefazione del presente volume, e di Leonardo Sinisgalli, che ha conosciuto il poeta, l’ha incoraggiato ed è riuscito persino a fargli vincere un premio letterario, peraltro insufficiente a destare l’interesse dei critici. Tre sono i libri di versi dal Calogero pubblicati in vita: “Poco suono” (1936),” Ma questo…” (1955), “Come in dittici” (1956). Il volume pubblicato da Lerici contiene solo l’ultimo di questi libri e i sinora inediti “Quaderni di Villa Nuccia” che prendono il titolo dal sanatorio in cui il poeta fu ricoverato per più di un anno. Tutto il resto – e forse non potrà esser tutto – apparirà nel secondo tomo delle “Opere poetiche”.
Terzo dei sei figli di un possidente, Lorenzo Calogero apparteneva ad una di quelle famiglie meridionali che non saprebbero immaginare un uomo di qualità sprovveduto di una laurea; e infatti Lorenzo, dopo aver tentato la facoltà d’ingegneria, ebbe la sua brava laurea in medicina a Napoli, nel ‘37. Come medico il poeta non doveva valer molto se fu obbligato a spostarsi in varî piccoli paesi della Calabria e se nel ‘54 il paese di Campiglia d’Orcia (la più settentrionale delle sue sedi, che lo vide «condotto ad interim») si affrettò a congedarlo dopo due mesi di prova. I veri interessi di Lorenzo, i suoi veri amori furono due: la madre e la poesia. Tutti e due, però, insufficienti a far di lui un uomo adattabile alla vita. Quali caratteri clinici ebbe la sua psicosi non si sa con certezza. È troppo facile affermare che un altro, nelle sue stesse condizioni, avrebbe potuto essere un buon medico e un buon poeta. Tutto quel che si può dire è che a lui non fu possibile. Con la famiglia ebbe rapporti contrastati, le sue amicizie furono esclusivamente epistolari e intermittenti, non si conoscono donne nella sua vita, fatta eccezione per un fidanzamento sfumato e per una non corrisposta passione per un’infermiera. Visse in povertà, nutrendosi più che altro di sigarette, di sonniferi e di caffè, e solo due volte pare si sia arrischiato fino a Milano e a Torino. Si può affermare che gli ultimi trent’anni della sua vita furono occupati dal quasi ininterrotto fluire della sua vena poetica e dall’inutile ricerca di contatti letterari con editori e critici.
Un poeta maledetto, dunque, di quelli che vedono nella sventura il solo loro possibile esito? Forse, ma senza il fatto tipico del maledettismo letterario: l’inurbamento, la vita in città, l’appartenenza a un gruppo, a un clan, il lato vantaggioso d’ogni cattiva stella, il rovescio della medaglia. Ho scritto altra volta che solo gli artisti mancati hanno il conforto di uno smisurato orgoglio; ma Calogero non fu, in questo senso, un uomo mancato e non gli fu largito un ipertrofico sentimento di se stesso. Anche se il successo gli fosse venuto da parte di uomini mediocri, e non dai suoi attuali scopritori, egli l’avrebbe forse accolto con umiltà, come si può comprendere da frammenti di sue lettere, per lo più sgrammaticate e deliranti.
Accostarsi alla sua poesia è un’ardua impresa perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ridotta a semplice segno. Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore. Giustamente ha detto Sinisgalli che il suo punto d’arrivo è l’arabesco; ma che questa trama mai finita e sempre pronta a ricominciare sottintenda un sistema, come ci viene suggerito, resta un’ipotesi. Certo se scoprissimo la chiave di quell’intrico di rapporti ben altra evidenza assumerebbe una poesia in cui è, sicuramente, «un’idea dell’essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali» e sostanzialmente «più una fisiologia che una calligrafia». Nelle sue libere lasse (lontane da quell’alta marea verbale che fu di Whitman e di alcuni futuristi) Calogero scompone in emistichi il nostro verso tradizionale e lo ricompone in nuovi modi, con frequenti ipermetrie e non rare rime, piuttosto acciuffate a volo che necessarie. Non c’è sensualità in lui, e non conoscendo le sue prime prove non sappiamo quanto di deliberato ci sia in questa rinunzia. Il poeta ricorda davvicino certi musicisti moderatamente atonali che rasentano sempre il tono: la sua forma ha sempre qualcosa d’inconcluso, il senso del filo a piombo che ci fa dire, in poesia e in musica: «siamo alla fine», sembra essergli ignoto.
Un panorama di segni, s’è detto: le immagini naturali, pur frequenti, non hanno nulla di naturalistico e quando non sono ornamentali fanno parte di un groviglio di pensieri dissociati, spezzati. Non poeta pittore, dunque, per nulla impressionista, ancor meno espressionista se l’espressionismo nasce da una scelta violenta dei propri mezzi formali e da un deciso sentimento di rivolta; e lontano da quei giovani poeti nostri che si dicono schizofrenici perché oggi non si può essere altro, ma che presto occuperanno, e senza dubbio assai degnamente, cattedre universitarie, Calogero ha lavorato per molti anni in un incrocio di tendenze, rifiutandole tutte per non impoverirsi, interamente posseduto «dal demone dell’analogia, della similitudine». Una delle disgrazie di questo poeta nato forse alla poesia con qualche anno di ritardo è che i suoi versi non si prestano affatto alla citazione, e che, quando è possibile, l’estrapolazione non ci dà il meglio di lui e rivela, anzi, quante reminiscenze il flusso ininterrotto porta con sé. A una prima lettura Calogero si direbbe dunque un poeta da prendere o da lasciare, senza partiti intermedi: se lo si accetta, anche i giuochi di parole, la quasi puerile ricerca di suoni omofoni, le sue immagini da paravento giapponese, tutto il suo bric-à-brac segnico assume una giustificazione; se si crede invece che la grande poesia non possa fare a meno di una certa vittoria della ragione sulla materia oscura che si presenta a noi, allora la conclusione dovrà essere diversa. Ma è chiaro che qui si parla di grande poesia, e non è detto che il quasi demente di Villa Nuccia, con tutto il suo impegno umano, la sua indubbia preparazione letteraria, il suo delirante bisogno di trasformare in angelo una povera infermiera probabilmente sorpresa e atterrita, non possa costituire un grado intermedio tra la più alta poesia (quella di visionari come Hölderlin e l’ultimo Yeats) e una forma di espressione puramente velleitaria, informe.
Resta dunque inteso che una conclusione non può esser tratta da un frettoloso lettore d’oggi. E non è nemmeno necessario: la vera poesia, quando c’è, può sempre attendere il suo turno. Se qualcuno, poi, manifestasse la sua sorpresa per il fatto che oggi, in pieno boom editoriale, un poeta debba morire per farsi conoscere, bisognerà ricordargli che attualmente nella sola Italia escono più di mille libri di versi all’anno, metà dei quali hanno caratteri d’indubbia dignità; e che non è materialmente possibile l’esistenza di un mostro, di un critico che possa leggerli tutti senza giungere a una completa paralisi delle sue facoltà ricettive. A un certo grado di saturazione il palato e l’olfatto non soccorrono più. Il critico d’oggi è come uno di quei cuochi che vivono in mezzo a squisiti manicaretti, ma che ormai, se mangiano qualcosa, preferiscono mangiare pane e cipolla. Non so se questo stato di cose sia, per un poeta, una fortuna o una disgrazia. Indubbiamente resta al poeta, più che ad ogni altro artista, la speranza di uno scoppio ritardato. Ma si è già detto che per il Calogero il problema si presentava in forma ben diversa. Egli non scriveva la sua poesia, la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile. Se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo.
GIUSEPPE MORABITO
I Quaderni di Villa Nuccia di Lorenzo Calogero
in La provincia di Catanzaro, Speciale Lorenzo Calogero, II, 4, luglio/agosto 1983, p. 27
«(…)La morte acquista un senso di liberazione e di mistero, che il poeta accetta ma che intende tentare di scoprire (“Oggi cammini con un sorriso empio / e non so quale sia dalla mia morte il futuro. / Ma incomincia come un’eco un’altra giornata /ed è superfluo e zoppice: oggi mi avvicino / al muro come le esili foglie di questa pianta”) (QVN 164) (…) Il poeta, come salvezza, scopre la “via del sogno”. In questo “teatro strano” “erra al murmure di questo mare / una voce d’angelo / una voce di passeri a stormo” (QVN 114). È il giorno della ricerca e della rappresentazione e “questo orribile / calmo senso di gioia con danza” continua imperterrito (QVN 113)»
AV ANDERS OSTERLING
in Stockholms Tidningen , Stoccolma
«(…) si tratta di un monologo senza fine ove il tessuto lirico ha due leitmotiv, l’amore e la morte… La sua dizione è musicale… le immagini suggestive… passano con visioni di orizzonti sfuggenti, effetti di luce misteriosi, tramonti infuocati (…) »

ANTONIO PIROMALLI
in La Letteratura calabrese, Cosenza, Pellegrini, 1968, vol. II, p.53-67.
(…) Calogero infrange il nucleo etico e formale della cultura classica intesa come armonia di ideali, come misura interiore, come eticità che sprofonda nel passato della Magna Grecia o si collega alla tradizionale concezione della famiglia. Pascolismo e carduccianesimo sono da lui sorpassati (…) Calogero coglie l’oscuro esistenziale in modo disperato; simbolismo, surrealismo, ermetismo sono le spoglie del dolore fatalizzato nell’irrazionale, nel subconscio, nei fulgori e nei frammenti della poesia. (…) si avvicina immediatamente al terrore dell’essere e alla frantumazione.(…) la sua espressione è lontana dalla logica e dalla narrativa, è iterativa – conforme allo stato psichico fatto di frammenti, alla scissione dell’io – (…). La realtà è morta per Calogero e da quella morte nasce la letteratura come solo elemento di relazione con la morte della vita presente (…)
(…) «dedizione disperata e mostruosa» alla poesia durante «vent’anni di vita oscura, senza amici, senza complici», intendeva bene alla premessa a Come in dittici (1956) l’idea dell’essere come terrore , catena di eventi fulminei, rotti, casuali, la tecnica poetica dell’arabesco, sostanza spirituale di quei versi colti, difficili, in fantastica crescita, scritti quasi in uno «stato di estasi» (…) Intanto il paesaggio calabrese della rupestre costa del Tirreno fronteggiata da scogli e vulcani nell’arco solenne tra Sicilia e Bagnara, immagine di cataclismi remoti e di apocalittiche rovine, inteso fuori del tempo e della storia, diventa per Calogero simbolo di una forza senza confini in cui l’uomo è pietrosa solitudine impotente contro le piogge uraganiche e l’incomposto franare delle rocce. Il poeta vi appare un antico, morto “duemila anni fa”, fra lui e il ”popolo di uomini leggeri”, i viventi, è un’immensa lontananza, le cose affiorano “da un oceano sommerso”, la ricerca è quella di una “realtà oceanica” (…).
(…) La dialettica interiore calogeriana si muove tra distruzione-disordine del reale e tentativi di ricomposizione. C’è una frattura iniziale che fa intuire lo scacco dell’essere e delle relazioni, la vanificazione delle forme dell’apparenza quale frammentazione dei fenomeni alla deriva e loro movimenti larvali. Tutto ciò avviene, nella poesia, attraverso la letteratura, il solo mezzo per avere conoscenza di sé, del disordine, per spiegare se stesso in immagini e figure, per contestare realtà, tempo e storia ma anche per esprimere presentimenti di risveglio, affermazioni di uno stato superiore o diverso dall’essere e del mondo, per inventare nuovi moduli letterari individuali – non raramente utopici, paradossali, ma da spiegare sempre dall’interno di questa condizione – alternativi allo scacco, alla emarginazione. (…) Tutto lo studio, di raccordo tra dialettica interiore e letteratura, tra letteratura e forza visionaria, cultura popolare adombrata nella descrizione di elementi del paese e del raccontare da parte delle ragazze, è ancora completamente da fare. Ma anche l’intero sistema formale del poeta è da studiare; fino ad ora si sono dette cose generiche collegate con lo scacco esistenziale di tanti altri poeti ma la specificità di Lorenzo Calogero è da studiare. Dal punto di vista formale sono da esaminare gli elementi del sistema: le ripetizioni corrispondenti allo sterminato disordine fenomenico, l’esame semantico delle parole che sostituiscono i contenuti al di là di ogni esplicitazione logico-sintattica, le orchestrazioni dei colori e dei suoni, il ritmo del significante come espressione della forma interiore della visione (il parlato, l’assolo, il confidenziale e i loro toni), i ritmi irradianti miranti a rendere l’inconscio, i diversi piani espressivi, la sintassi, la metrica, la musicalità come elementi che mirano a eludere il reale e ad attingere una unità, gli aggettivi che chiariscono gli stati psichici, i colori che sono relativi, di volta in volta, agli stati psichici. Si è anche parlato acriticamente dell’universalità di questo poeta ma non sono state studiate le idee, la poetica, le fonti culturali, l’ambiente di Melicuccà, il linguaggio, i livelli culturali, etc.; si è ripetuto, invece, qualche slogan più o meno banale: “reale temperamento poetico” (Montale), “autenticità e nobiltà del suo messaggio” (Caproni), “altezze degne di Novalis, di Nerval, di Rilke” (Vigorelli)(…)Dai primi versi di Ma questo… il mondo di Calogero appare di colore delicato e cilestre come un acquario, le forme si muovono snelle e trasparenti in “un’aria diafana”, in colori d’alba, ultraterrene presenze, quasi angeliche; veli emersi sui vulcani, nuvole che dormono, “fili nivei erosi” sono le immagini che testimoniano una fisicità pura e delicata a cui corrisponde una misteriosa e segreta presenza, una lievitazione impercettibile di sostanze che vivono in un silenzio in cui si coglie “l’erba prima della vita rara”, delle “cose prime”. In questo quadro fisico e psicologico di tremori e nascimenti i versi di Calogero diventano filigrane di pitture, tavole di elementari presenze naviganti in una mutevole composizione. (…) Infatti Calogero, nel profondo magma che è nella sua coscienza, coglie moti impercettibili e li segue con precisione capillare come se portasse a termine un esperimento, come se dipingesse con straordinaria cura; in tal senso l’arabesco è precisione tecnica, è lama che affonda nella materia per estrarne particelle infinitesimali in effervescente movimento, l’opera del poeta confina con quella dello sperimentatore. Egli si rivolge spesso a una donna della quale non si vede il volto o alcun contorno fisico bensì un colore, un impercettibile tono (…)
(…) Ci pare che sia ormai necessario studiare severamente Calogero, potando molta sua produzione di consumo tardo ermetica, esaminando la sua figura di intellettuale, le sue idee, i condizionamenti dell’ambiente calabrese, scegliendo – infine – una antologia delle sue liriche compiute (e compiutamente belle) tra le moltissime anche informi che ci rimangono, commentandone le situazioni, le immagini, la lingua: ciò è più utile delle proclamazioni di grandezza e di universalità e pone le basi per un giudizio storico e artistico sulla poesia. Allo stato attuale manca la possibilità di un esame sistematico dell’attività poetica di Calogero ma manca anche la possibilità di dare un giudizio, integralmente, su un determinato periodo dell’attività o di confrontare i diversi momenti. Un determinato periodo può essere studiato integralmente quando è corredato dalle varianti e, soprattutto, dalle meditazioni estetiche sincrone che Calogero esponeva nei quaderni non ancora editi e di qualcuno dei quali abbiamo avuto conoscenza. Il nostro discorso mira a fissare i prolegomeni, gli avviamenti allo studio filologico, storico, linguistico, estetico sia per leggere Calogero che per intendere il suo sistema. Tale impegno istituzionale filologico-storico-estetico è mancato perché Calogero è caduto in mano ai dilettanti, ai giornalisti del caso Calogero i quali hanno rappresentato nel poeta il folle, il profeta, lo sventurato ambientale ecc.(…) La mancanza di conoscenza integrale dei testi ha portato al romanzeggiamento intorno all’universalità di Calogero, alle forzature provinciali, all’identificazione fasulla tra vita e arte, a giudizi impressionistici (ma qualche studioso si è dedicato umilmente all’esame testuale e all’esplicazione). La conoscenza parziale non può attuare il rimando all’unità ideale dei testi (che esiste solamente nell’ipotesi fatta da un lettore pigro), alla circolazione dei temi, soprattutto nel caso di un poeta che varia, nel suo laboratorio, i temi particolari.

POESIA – NICOLA CROCETTI EDITORE
Mensile internazionale di cultura poetica
Anno XXI, giugno 2008, N. 228: Copertina dedicata a Lorenzo Calogero.
All’interno due interventi critici dedicati al poeta: Una celeste titubanza, di Daniele Piccini (pp. 2-4) e La fede assoluta nell’incanto di Dante Maffìa (pp. 5-6).

MICHELE RAGO
in l’Unità
«Certo, sorprende, come una vera scoperta, questo italiano lirico dei suoi versi così semplice e così continuo, per cui il riferimento alla ‘poesia ininterrotta’ di Èluard appare convincente.»
ROBERTO ROVERSI
Intervento autografo in occasione della presentazione della mostra fotopittorica di Nino Cannatà, “CITTA’ FANTASTICA, i paesaggi sognati nell’opera di Lorenzo Calogero” Bologna, Biblioteca “J. L. Borges”, febbraio 2004.
Due volumi rilegati in tela rossa, ciascuno dentro a una custodia cartonata: Lorenzo Calogero, Opere poetiche, Milano, Roberto Lerici Editore, 1962 e 1966. (Collana Poeti Europei, n° 9 e n° 23). Volume primo di pagg. XLV-432, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi; volume secondo di pagg. 316, a cura di Roberto Lerici e con la seguente premessa a pag. VII: “… Nel terzo ed ultimo volume, contenente “Avaro nel tuo pensiero”e “Parole del Tempo”, presenteremo quella vasta cronografia bio-bibliografico epistolare, che era stata annunciata per questo secondo volume, e che il ritrovamento recente di numerose lettere e scritti di grande interesse ci ha consigliato di rimandare appunto al terzo…”. Questo terzo doveva essere a cura di Amelia Rosselli (ma, credo, mai pubblicato). Il secondo volume ha due fotografie su doppia facciata: “Particolare della camera da letto a Melicuccà, casa di Lorenzo Calogero”; e “Melicuccà, Reggio Calabria, paese natale di Lorenzo Calogero”. Melicuccà, in quella fotografia, mi appare, così vista dall’alto, come un ampio villaggio cinese (quelli di un tempo), con i tetti di tegole e travi quasi incastrate fra loro (taluni anche, marginalmente, squinternati) e tali da coprire le strette strade sottostanti. Sembrano senza vita eppure si è spinti ad immaginare, sotto, un brulicare di passi.
Nel primo volume cinque fotografie a pagina intera fra cui: un ritratto invernale di Calogero non certo al paese [Milano, Piazza Duomo ndr.], e la metà di un muro di una stanza con uno scaffale basso e stretto pieno di libri e il piano di un tavolo con altri libri ancora. Anche una sedia. Devo dire che il ritratto di Calogero con cappotto e cravatta, cappello e occhiali (“occhiali tondi e antichi” come ricorda Tedeschi), con una borsa stretta nella mano destra e la sinistra immersa in una tasca come per riscaldarla, a me ha richiamato, adesso a riguardarla, una fotografia quasi analoga di Giorgio La Pira. La testa di Calogero un poco reclinata sulla destra, gli occhiali luccicanti; ai piedi molti piccioni.
Nei due volumi, le pagine complessive che raccolgono testi poetici sono 748; come, ad esempio, un grosso volume degli autorevoli “Meridiani” mondadoriani di oggi. La prefazione di Tedeschi nel primo volume occupa quaranta pagine; ed è un saggio ampio, denso, meditato e motivato. È vero dunque che già quarant’anni fa non era un ignoto. In seguito è stato ben presente, e non con poche poesie, in molte antologie della poesia italiana contemporanea, pubblicate anche di recente. Segno che non è un’ombra; ma neanche è tuttora, occorre riconoscerlo, un corpo vivo e presente intero. Cammina, ma il suo passo non fa crocchiare le foglie.
Questo gruppetto di rapide annotazioni e citazioni, mi fa dunque ripetere che non sembra del tutto esatto sostenere che Calogero sia un poeta scartato, liquidato, dimenticato; ma è vero che può sembrare come un oggetto di piccolo pregio che si conserva in cantina, spolverandolo periodicamente soltanto per non farlo arrugginire. Non una presenza testualmente attiva, costante, ma depositato, nello sterminato mausoleo della scrittura nostrana, nello scaffale tranquillizzante e affatto criticamente traumatico degli autori minori o minimi – la cui utilità prevalente può capitare essere quella per le tesi di laurea o le esercitazioni universitarie.
Nell’aprile del 1961 era uscito il grosso fascicolo de “L’Europa Letteraria” con le venti poesie di “Villa Nuccia” e con le due note di Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Tedeschi. Quella di Sinisgalli (infaticabile e convinto promotore) è di quattordici righe ma ha il palpito di un’attenzione che direi quasi ansiosa, inquieta per i pubblici risultati che non si compongono, non riuscendo ad oltrepassare il muro di un’omertà di casta. Infatti, anni prima, nel ’57, dopo avergli fatto pubblicare due poesie su “La Fiera Letteraria”, aveva detto a Tedeschi: “Sai, è un poeta vero nel senso della parola. Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce e io stesso l’ho scoperto per caso; vedi che può succedere in questo paese, se non si è nel giro, non si esiste… Gli feci vincere il Premio Villa San Giovanni, pensando che altri scrittori lo scoprissero, gli ho pubblicato poesie su “Civiltà delle macchine”, gli ho fatto una prefazione ad un libro. Nessuno si è accorto di niente. È malato, fuori della vita organizzata… Mi scrive lettere lunghissime… fitte-fitte, mi cita cose complicate… È di famiglia nobile, proprietari terrieri… Ha fatto il medico a Siena. Qui fu colto da crisi di patofobia… Avrà 10-15 mila versi. Bisognerebbe fargliene pubblicare, non può rimanere abbandonato, gli si deve qualche soddisfazione, almeno per questa furia mostruosa che ha nel costruire versi e nel dedicarsi alla poesia, sua e degli altri”.
E Tedeschi scrive: “Ho passato un giorno intero con questo Calogero. Ore anormali, al cospetto di un uomo che distrugge tutta la vita organizzata di un individuo, tutta la sua carica di auto-conservazione e voglia di imposizione nella vita. Una figura pallida e disordinata, suggestionante e dispettosa, apparentemente senza storia, o espressiva solo di storia casuale, inconsapevole, a cui tutto capita per ineluttabilità… Ha una figura fisica minuta. È piccolo, magro. Lo si potrebbe situare morfologicamente, tra Leopardi e Tristan Corbière. Faccia semiglabra e lucida… occhi vividi o spenti allo stesso tempo”.
Per il particolare, le venti poesie raccolte sulla rivista, subito dopo le pagine di “Quaderno americano” di Italo Calvino, sono (esemplarmente) strazianti, straziate, miracolosamente intatte pur dentro al terremoto dei sentimenti, luminose, come veli bianchissimi fluttuanti sul fuoco dell’inferno prima di avvampare: Dalla cenere o un nome nuovo / in questa continua discesa / quando con cura una furia / nel cuore pesa (QVN XII). Oppure: Ma passai una mattina, affacciato / per offrirmi intero / al disco della notte, unica cosa che imparai per impararmi…(QVN XIII).
Un libro di attenzione alta, quindi importante e acuto, finalmente, interruppe nel 1988 l’ancor gelido silenzio critico ufficiale su questo poeta disperato e tempestato, che ricercava come accecato dall’affanno, a tentoni, allungando le mani, il contatto con altri che fossero almeno disposti ad ascoltare con attenzione la voce e ancora la voce, la forza come una spada insanguinata della sua voce. È il libro di Caterina Verbaro, “Le sillabe arcane” (Vallecchi editore). Non conoscendo di meglio, a questo vorrei rimandare riferendomi. Per dare la giusta, non più tempestiva ma almeno e finalmente, critica gratificazione ad un poeta che non deve restare più, restare oltre, sommerso dalle acque, come una statua abbattuta e dimenticata. Ma deve essere riportato alla luce, urlante grondante solitario. E vivo.
“Dipinto come un Lapis – la poesia di Lorenzo Calogero”
Saggio pubblicato sulla rivista “Le Voci della Luna”, n°47, luglio 2010
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GIANNI SCALIA
Interrogare la vita con la poesia: il poema di Lorenzo Calogero
Prolusione tenuta in occasione della presentazione della mostra fotopittorica di Nino Cannatà, “CITTA’ FANTASTICA -i paesaggi sognati nell’opera di Lorenzo Calogero” Bologna, Biblioteca “J. L. Borges”, febbraio 2004.
Per prima cosa direi che prima di me, e forse prima di tutti noi, dovrebbero parlare questi due incredibili giovani che sono Nino Cannatà e Arianna Lamanna.
Quando, dopo una telefonata, ho aperto la porta a questi due giovani io non avrei mai pensato di incontrare due persone appassionate al punto da non porre alcuna reticenza alle loro richieste. Sono loro che, quasi paradossalmente, stanno inventando Lorenzo Calogero, perché questo poeta non soltanto sconosciuto, ma addirittura rimosso dalla cultura letteraria in primo luogo, ma anche in generale, dalla cultura italiana, prende vita in modo stupefacente per la cura di due giovani che a questa poesia o meglio a questa persona sono legati non soltanto da ragioni etniche, locali, regionali (tutti termini diminuitivi, naturalmente, nel presente mondo mondializzato) ma per una disinteressata passione di poesia.
Detto questo, e fatta la dovuta reverenza a tale passione, ci sarebbero molte cose da dire su Calogero ma prima di tutto bisognerebbe collocare la sua figura nella dimenticanza della Letteratura italiana.
Solo un grande poeta come Leonardo Sinisgalli ha riconosciuto violentemente e amorosamente l’originalità di Calogero e, in qualche modo, ne è stato il suo “scopritore”.
Perché Lorenzo Calogero, scoperto da Sinisgalli, è rimasto poi occultato da quasi tutti i letterati italiani o forse si può dire da tutti i letterati italiani.
La cosa sorprendente, anche un po’ inquietante, è che Calogero ha avuto moltissime recensioni, anche per questi due volumi di opera incompleta [ndr. Opere poetiche, vol. I-II, Milano, Lerici editore,1962-1966].
L’opera integrale aspetterà non le solerti cure di questi due nostri amici, ma di un editore italiano.
L’opera di Calogero è stata recensita da grandi autori italiani, per esempio Montale, Ungaretti, Luzi, ma sono rimaste recensioni “giornalistiche”, non solo perché apparse nei giornali quotidiani, ma anche perché scritte con una certa distanza e indulgenza.
Sinisgalli aveva capito che non si doveva indulgenza a Lorenzo Calogero, si trattava di affrontarlo, subito, di colpo, con quella violenza amorosa che esigeva la sua persona e la sua poesia.
In un certo senso, per Lorenzo Calogero, la sua persona e la sua poesia si identificavano. Questo avviene, di solito, in due casi: o nel caso deleterio e poi caduco, di identificare la poesia con la vita, il vissuto o l’esistenza personale di chi fa poesia, (poesia è una parola greca “poíésis” cioè fare), fare poesia non significa trasmettere nella poesia il proprio vissuto, le proprie esperienze esistenziali, significa semmai trasfigurarle o portarle su un piano la cui riconoscibilità è data dal linguaggio, solo dal linguaggio, il linguaggio della poesia.
Questa indulgenza in fondo ipocrita, verso la vicenda umana di Lorenzo Calogero, le sue nevrosi, la sua malattia, ed essendo anche un medico, la sua autobiografia, la sua autobiologia (la parola non è mia ma del poeta Giovanni Giudici) non rende onore al linguaggio del poeta, allora nelle poche righe, che poche storie della letteratura italiana del ‘900, in questi ultimi anni sono dedicate a Lorenzo Calogero, i giudizi sono approssimativi e dubitosi, e alla fine non risarciscono la dimenticanza che si è avuta e anzi addirittura ne sottolineano il suo oblio.
E’ un atteggiamento questo che dovrebbe far pensare. In ogni caso noi non siamo qui per celebrare Lorenzo Calogero, che non ha bisogno di una celebrazione. Ha bisogno di un riconoscimento, il riconoscimento nel senso preciso della parola. Non riconoscimento come atto dovuto, come risarcimento di un oblio, ma come un’affrontare criticamente, interpretativamente la sua poesia, a cominciare dalla restituzione della sua opera non solo alla lettura dei lettori, ma restituirla in senso filologico materiale, cioè pubblicare interamente la sua opera.
Di Lorenzo Calogero esistono solo due volumi pubblicati nel ’61 e nel ’66. Il secondo volume era una specie di remedium del primo volume in cui non solo non c’era che una minima parte della sua produzione, ma mancavano anche i primi libri pubblicati dal poeta presso piccoli editori, libri che forse non hanno avuto una circolazione e una presenza in libreria, se non solo nelle librerie locali. Il dovere della cultura italiana e la responsabilità di un editore è quella di preparare, dopo il necessario studio, (a cui forse, per un supplemento d’amore, Nino e Arianna si dedicheranno), per pubblicare integralmente l’opera di Lorenzo Calogero e anche il suo notevolissimo, copiosissimo epistolario.
Detto questo, come si fa a racchiudere in una formula un poeta? Si può tentare di avvicinarsi lentamente, ma il tempo ci manca. Indugiando, cercando di penetrare non nelle possibili intenzioni, ma nella decifrazione dell’esplicito e cioè nel senso poetico. Diceva la professoressa Ballerini: “le immagini parlano”, parlano da sé come immagini, ma anche la parola poetica parla.
Parla anche per immagini e questo è per esempio uno degli effetti della poesia di Lorenzo Calogero.
Si potrebbe allora dire che è un poeta immaginoso, che parla attraverso le immagini. Ma potremmo anche definirlo autore immaginifico, perché si rivela fecondo creatore di immagini.
Io suppongo che Lorenzo Calogero si sia formato non soltanto nella lettura dei testi di poeti italiani, né che abbia da spartire delle influenze con questi poeti; si può riconoscere in qualche modo, superficialmente, la coesistenza del suo tempo interiore con l’ermetismo italiano, il surrealismo francese, più indietro anche il simbolismo, ma c’è una originalità in Calogero che è difficile da cogliere.
Quando ci si trova di fronte a un poeta di alta qualità è difficile trovarne una formula per scoprirne il segreto. Di solito è più facile definire un poeta di minore eccellenza, di più evidente coesistenza con la cultura poetica del suo tempo, e difatti Lorenzo Calogero è perturbante proprio perché è difficile stabilirgli delle parentele e correlazioni nelle circostanze culturali. Allora si potrebbe dire che Lorenzo Calogero è un poeta nato da sé. Neppure questo! E’ una concezione romantica pensare che un poeta nasce da sé, senza che non ci sia nulla attorno a sé o che non abbia radici immerse in qualcosa che lo precede. Direi che l’originalità di Lorenzo Calogero è quella di riconoscersi poeta non attraverso il linguaggio poetico esistente ma attraverso una invenzione del linguaggio. Difatti la prima cosa che impressiona è un discorso continuato e continuo. Le migliaia di versi che ha scritto costituiscono una specie di problema di cui bisognerebbe trovarne le strutture, le finalità, i principi e la fine. Ma queste, non si trovano facilmente, non si trovano facilmente né il principio né la fine, anche perché gli ultimi versi che ha scritto, li ha scritti uno o due giorni prima di morire.
Allora l’originalità, il novum per un lettore di prima lettura, è quella di trovarsi di fronte ad una poesia che è un poema continuato, cioè un ininterrotto discorso, non solo per la copia di versi, ma perché c’è qualcosa che li tiene insieme e ciò può essere una chiave di poetica, retorica di intenzionalità letteraria oppure una chiave autobiografica. A me sembra che non ci sia né l’una né l’altra, semplicemente; né chiave autobiografica né di consuetudine, esercizio professionale di poesia. Allora c’è una necessità in Lorenzo Calogero di essere poeta. Necessità di poesia non per identificare la poesia con la vita, ma identificare la poesia con la dedizione alla poesia.
I primi poeti italiani, quelli del ‘200 e ‘300, adoperavano due termini che si esprimevano come la volontà di dire: desiderio di dire, amore di dire.
Desiderio e amore hanno sempre un oggetto mancante. Lorenzo Calogero è un esempio del tutto peculiare di questa volontà di dire che naturalmente può essere fraintesa se consiste solo nell’esercizio poetico continuo, proliferante. Cosa che, apparentemente e superficialmente, c’è in lui, ma non c’è, nel senso più profondo, nel senso cioè che la volontà di dire non è che un continuo esercizio, non esercitazione scolastica di dire, delle volontà di dire, che non può fermarsi, arrestarsi in una formula, in una cifra, in una tendenza letteraria, ecc…
Per questo è difficile assegnare Lorenzo Calogero ad una corrente o tendenza della poesia lirica italiana e forse questa è una delle ragioni per cui è stato dimenticato, tenuto da parte non solo dall’ufficialità della cultura letteraria ma dalla vera e propria vita della poesia del ‘900 in Italia. E’ dunque difficile trovare una formula che lo definisca.
“La formula è il luogo” dice una frase di Rimbaud, ma che cos’è il luogo? A cosa si riferisce Rimbaud con l’espressione “luogo”? Il luogo dove la poesia si genera!
Rileggendo i libri di Lorenzo Calogero, una cosa che è proprio evidente è che questa volontà di dire è un discorso continuato, è un continuum non interrotto: le antitesi, i contrasti, le opposizioni, perfino gli stridori sono dovuti alla continuità del discorso. Sono pochi i poeti che riescono da un lato a distinguere vita e poesia, e altri invece la identificano talmente da diventare artifact di sé stesso. In Lorenzo Calogero il discorso è continuato, come se il desiderio della poesia, di qualcosa che manca, si configurasse come un poema; non poesia strettamente lirica. C’è naturalmente la vita di Lorenzo Calogero dentro, ma è la sua vita non dico trasfigurata, ma trascritta in un’altra vita, in quella seconda vita che è quella della poesia. La poesia, ci piaccia o no, sia dolorosa o gioiosa, non si identifica con la vita, pur essendo la vita. Ma è la “seconda vita”, una seconda vita che si deve conquistare con il sacrificio della prima, della vita quotidiana.
Questo sacrificio Lorenzo Calogero lo ha fatto, ed è la sua condizione di malattia in senso non solo fisico, ma anche metafisico, che lo ha portato ad una adesione totale, integrale, a questo esercizio spirituale (in quanto esercizio di poesia).
Fondamentalmente questa poesia è fatta per essere dimenticata dai più, cioè da coloro che non hanno la stessa religione della poesia. La poesia non si confonde con la religione, ma esiste una religione della poesia. Proust diceva: “l’ordine letterario è simile all’ordine monastico”. Bisogna essere dei monaci (monacos dal greco significa “solitario”), quindi isolati, appartati di fronte ad una società del consumismo, dell’edonismo come quella in cui viviamo.
Questo sacrificio della “prima vita” è per Lorenzo Calogero la Vita. Non c’è altro che riesca a distrarlo. Sì, c’è una figura femminile, due figure femminili ideali, c’è l’amore per la mamma, certamente questo rientra nel suo esercizio, ma la realtà poetica è una “realtà seconda”, la poesia è una vita seconda che non confligge con la vita vissuta, ma ne rappresenta una interrogazione perpetua. Si potrebbe forse dire che Lorenzo Calogero è un poeta che continua ad interrogare la vita con la poesia, qualcosa che è di pochi, ed è difficile interrogare la vita con la poesia. La vita non si fa interrogare dalla poesia.
Vi leggo ora pochi versi tratti da “Inno alla morte”. Quello che io ho detto finora è un’immagine della morte perché se noi diciamo che la poesia interroga la vita, la poesia è una forma della morte, della morte scritta, parlata, cantata, una morte, diciamo, in versi che, se mi concedete questo terribile equivoco, per una morte in versi, una morte inversa.
INNO ALLA MORTE
Ma non m’interessa piú della vita.
Oggi mi curo della morte.
Fra poco e alla svelta morrò,
perché anche tu con me sul lago
verrai domani. E la pelle è adunca
o si screpola oppure sbadiglia.
Con te tergiversare non vale una lunga pena.
Poco mi interessa ella;
ora vergine sbadiglia
e il sangue è fluido o è la medesima cosa.
Tu come un giunco fresco
un narciso hai messo alle nari
OP I 405
EMILIO SCIARRINO
Le prime poesie di Lorenzo Calogero
recensione alla nuova edizione di: Lorenzo Calogero, Parole del tempo, Roma, Donzelli, 2010.
La pubblicazione di Parole del tempo [1932-1935] è un ulteriore passo nella riscoperta della poco nota poesia di Lorenzo Calogero. Si è solo all’inizio di un’ampia riscoperta, che pone anche una questione filologica: un’interpretazione definitiva si potrà stabilire solo dopo lo studio dei numerosi quaderni inediti. Le problematiche storiche o di ricerca di eventuali fonti occupano tra l’altro l’introduzione e la prefazione al testo.
Parole del tempo è infatti una raccolta segnata dalla lettura dei classici, percorsa da «vaghe rimembranze sepolte» (p. 197). Si colgono alcune visioni cortesi della «dama al castello» (p. 117-135), presenze angeliche, allegoriche talvolta suggerite dall’assenza dell’articolo definito — «solo amore può salvare la mia anima» (p. 35), «morte mi chiama» (p. 60) — oppure alcune immagini di un’Arcadia sepolta, riesumata nel «canto errante dei pastori» (p. 11, 50).
Sarebbe inutile ripercorrere in spazi così brevi tutte le possibili ed eventuali fonti di tale poesia. Il suo «soliloquio» con il tempo contemporaneo (p. 11) è prima di tutto un dialogo colto con i precedenti, una «voglia di sapienza» (p. 33) portata da un vago fascino per «l’antico» — non a caso questa parola è un leitmotiv.
La critica si è concentrata sulla figura del poeta, fragile, malato e morto in condizioni poco chiare. Il suo percorso è segnato dall’emarginazione culturale, esemplificata dalle foto che ritraggono il poeta calabrese a Milano, in vana ricerca di un editore. L’esclusione si ricollega all’alienazione intima.
Le poesie scritte negli anni ’30 sono il preludio ad un’attività sempre più intensa che porterà pochi frutti dal punto di vista istituzionale e che assume aspetti sempre più assoluti e smisurati (si parla di migliaia di versi). In questa distanza tra gli anni di scrittura e di pubblicazione a proprie spese (1956) si avverte una tensione tra un linguaggio ancora profondamente segnato dall’esperienza ermetica e lo sviluppo di una voce propria, il cui pieno sviluppo è percepibile all’altezza di Ma questo (1950-’54) e Come in dittici (1954-’56).
Secondo Mario Sechi, autore della prefazione, un progressivo distacco da alcuni moduli consunti si avvertirebbe anche nel corso di questa raccolta ma, se è vero che nell’ultima sezione che dà titolo alla raccolta Parole del tempo le poesie sono più dense e possenti, sono segnate da una forte continuità lirica. Torna inoltre regolarmente l’idea di una leggibilità del mondo, inizialmente presentata come una forma di fatalismo («Quanto di esso è vero / sta scritto perennemente in cielo» p. 36) evolvendosi in una più serrata comunicazione con le cose : «il rosmarino / lanciava messaggi» (p. 161).
La trascrizione dell’esperienza sensibile e contemplativa è dunque intrisa da una sensualità spirituale, un vitalismo mistico, una fede nella compartecipazione misteriosa all’essere: «siamo legati alla vita / da sottilissime vene» (p. 75). Nelle sottili evocazioni di fiori, erbe, paesaggi ed altri elementi naturali si coglie tale “panteismo” secondo una categoria interpretativa coniata da Amelia Rosselli, applicabile ad esempio a questi versi: «Che diranno questi alberi /che soli intercettano dentro un’umile / piega l’ultima sillaba del giorno / o sono essi forse appena un ultimo / estremo suo saluto ? ». La seconda caratteristica critica messa a fuoco dalla Rosselli è il ritorno di parole-segno, disposte in una “corolla di segni dilagante”, prelevate a svariati registri, dall’aulico al colloquiale, in modo sempre più visibile nelle poesie successive, dove ricorrono con più frequenza elementi astratti e matematici.
Questa poesia pur partendo dai luoghi atavici del paesaggio calabrese, si sposta verso orizzonti europei, dialogando con la tradizione poetica e il pensiero filosofico tedesco, con le scienze matematiche, in un’arcana e strana eleganza, sintetizzata da Sinisgalli tramite il concetto critico di “arabesco”, in cui si coglie sì l’esperienza matematica, ma anche l’alterità culturale. Pertanto è rischioso riportare Lorenzo Calogero ad una dimensione localistica o regionalista, quasi per porlo in una continuità rassicurante con un “genio del luogo”, che pure non incarna affatto, o inversamente distaccarlo dalla tradizione italiana per proiettarlo in uno spazio europeo ; la sua particolarità sarebbe forse il suo equilibrio inedito tra elementi culturali provenienti da orizzonti diversi e apparentemente inconciliabili, esperienza che la traduzione in francese conferma e mette in risalto.
L’elemento di sintesi e unificazione di questa raccolta è il tempo stesso, come si evince sin dal titolo. In apparenza si tratta di un tempo naturale, ciclico, quello delle stagioni. Il tempo storico non è mai direttamente presente, ma a questo alludono forse le visioni di una prossima fine del mondo (p. 83), ed alcune immagini («compagni / caduti, agghiacciati nel duolo»).
Al contempo viene meno la fiducia in una parola che sappia esprimere la pienezza di questa sensazione e con essa il carattere “cantabile” e prosastico delle prime liriche e si anticipa sull’evoluzione della lirica della maturità. In questo Calogero si ricollega al tradizionale motivo dell’ineffabilità: «cose per cui il dir vien meno / e la lingua non sa più parlare» (p. 137); retrocedendo allo stadio d’infans : «verbi indecifrabili e rari dei bambini / nell’ansia convulsa che hanno di parlare» (p. 145). Le due tematiche sono ricollegate: la parola è una costruzione storica, una stratificazione del tempo; e il tempo, definito e scandito dalla parola, è a sua volta una costruzione linguistica. Nella poesia che dà titolo alla raccolta, Parole del tempo, dice il poeta: «lascio che il tempo in me parli antico / e lasci un sapore salmastro / nelle mie parole, / con i suoi soavi detti» (p.175).
LEONARDO SINISGALLI
da L’età della luna, Milano, Mondadori, 1962
Quale vergogna per voi
amici vittoriosi, splendenti,
quale scherno alla vostra boria
la sfortuna, la miseria
d’un uomo inetto, innocente!
Lorenzo Calogero da Melicuccà
è venuto a chiedervi pietà
in nome della poesia.
Come un cane infetto
ha raspato alle vostre porte
nessuno gli ha aperto.
Oh i meschini crucci
per il lauro che appassisce
intorno alle tempie secche!
Sono più vispe le sue pulci.
Contano più le sue parole
perdute, insensate, fragranti
dei fiori scelti con i guanti,
delle stelle irritanti.
Avvertimento di Leonardo Sinisgalli
in Lorenzo Calogero, Come in dittici, Maia, Siena, 1956
«Sono felice di aver trascorso molte ore su queste pagine di versi; la vita non mi concede tante soste, devo rimandare alla notte i rari incontri con i poeti.
Quest’opera è di lettura difficile; ho fatto fatica ad assuefarmi ad un congegno espressivo un po’ dissueto. La poesia ci dà oggi risultati anche troppo espliciti.
L’autore di questo libro ha pagato cara la sua follia: venti anni di vita oscura, senza amici, senza complici. E ci si rende conto, ammirando l’estensione del suo dominio, che da tanti anni egli non poteva distrarre neppure un momento.
Questa raccolta di circa cinquemila versi è stata preceduta da altri due libri ugualmente fitti: si tratta, quindi, di un lavoro assiduo e, certamente, di un’ispirazione ininterrotta. Un fenomeno raro nella storia delle nostre lettere, una dedizione disperata e mostruosa. Si può capire tanto ardore avanzando delle ipotesi, fabbricando noi un retroscena o un sottosuolo per giustificare una carica di energia così insolita. Ma al poeta è bastata la sua natura, il suo sentirsi vivo soltanto per esprimersi. Ha allineato gli eventi in un flusso inesauribile di parole.
Un’opera così serrata non può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una scommessa o un miracolo. Il poeta ha rifiutato i soccorsi delle retoriche più fertili: l’incanto del numero, della simmetria, degli accenti, gli attriti degli oggetti, delle occasioni, della memoria. Si è fidato soltanto delle sue capacità espressive, di una vitalità insita nel linguaggio (la «vita acre dei segni»), per cui l’arabesco, che è senza dubbio l’acquisto più glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno ma diventa esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale.
Siamo, è chiaro, di fronte a una poesia colta che, però, scarta il lusso intellettuale, l’enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita, la generica. Quando dico arabesco voglio sottintendere un’algebra, un’ottica, una fisiologia, più che una calligrafia. Pensate all’iter Cézanne – Matisse – Klee, al Klee di quella memorabile epigrafe: «Sono inafferrabile. Sono vicino al cuore della creazione più di quanto è possibile. E tuttavia non quanto vorrei».
Perché il poeta rischia in ogni pagina di sembrare insensato, astruso, assurdo, rischia di non dire niente. L’operazione temeraria che egli conduce ha proprio l’indeterminatezza di certe analisi portate sulle quantità sfuggenti, di certe indagini al limite della catastrofe.
M’era venuta la tentazione di presentare, a persuasione del lettore dubitoso, qualche stralcio, qualche lacerto, e anticipare l’opera del tempo e affrettarla al punto da isolare nella vigna i grappoli incorruttibili. Mi sono subito accorto che non riusciva facile resecare le cellule di un tessuto sempre in crescita. Avrei messo insieme un museo, un atlante, avrei raccolto dei fossili o dei cristalli e sacrificata la virtù più segreta dell’opera, la sua linfa, la sua vena. Senza questa tensione le parole non sono che cadaveri.
Dietro le immagini c’è sicuramente un sistema, una dottrina di cui sentiamo la suggestione. C’è un’idea dell’essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali; il poeta arriva a cogliere un soffio, una scintilla e a restituircene qualche similitudine. Questa partecipazione, questa mediazione viene raggiunta quasi a dispetto della sua coscienza: le sue parole distorte, i suoi nessi incredibili, i suoi lapsus sembrano trascrizione di uno stato di estasi. Egli descrive un sogno cosi minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un’altra vita, più resistente alla morte.
Trascrivo dagli ultimi due libri, da pagine diverse e da diverse stagioni, solo una serie di metamorfosi per indicare certe risoluzioni, alcune varianti di un’unica immagine, forse la più logora che la storia della poesia abbia raccolta, con la viva speranza che il lettore varchi fiducioso il confine.
la luna, il fiore del limone
e il lume, lieve un’incertezza…
*
Spesso sfavilla blu umida
scura una luna…
*
Una vana
quiete soccorre una vana luna.
*
Saprai domani come la luna
coi dentuti occhi ha scavato la pietra.
*
Su la sommità era smossa
la luna sommessamente semplice.
in Paese Sera, 1962
«…Se la critica abdica di fronte ad un libro cosi ricco vuol dire che ci sono poche speranze perché la poesia possa ancora sopravvivere… »
SERGIO SOLMI
«Mi pare che Calogero abbia rinnovato ai nostri giorni l’esempio di una vita bruciata nella poesia e che la sua opera abbia le qualità per inserirsi in modo molto interessante nella storia della lirica del nostro Novecento (…)»
DIETER SOLNEMAN
in Die Welt, Amburgo
«(…) l’allegoria domina il suo linguaggio in una forma demoniaca spesso inafferrabile razionalmente e nelle sue poesie trasognate è racchiuso il poeta come vi fosse sepolto. Nulla di concreto, nessuna immagine, nessuna forma resta nella memoria, ma solo il mormorare della sua anima che vibra sommessamente e pare costretta a esprimersi per puro effetto di magia (…)»

SAVERIO STRATI
Nella sua opera abissi e cieli sconfinati
in Calabria, aprile 2001, p. 49
Il caso Calogero s’è aperto negli anni Sessanta e rimane tuttora aperto. Anzi io sono convinto che rimarrà aperto ancora per molti e molti lustri. L’opera di Calogero è sterminata ed è come un pozzo profondissimo da cui bisogna tirarla fuori strato dopo strato. È una poesia talvolta oscura, enigmatica, chiusa, che bisogna aprire con pazienza e lentezza, perché i bagliori di cui è impregnata vengano fuori.
Se uno legge gli altri poeti Calabresi, da Gerace a Casalinuovo, da Costabile ai più giovani, vi trova un’atmosfera, un clima, un mondo paesano eppure essi sono grandi poeti che esprimono compiutamente lo spirito della nostra gente e della nostra terra. Insomma vi si respira qualcosa di conosciuto, o si scopre che qualcosa di rimosso torna subito alla superficie alla prima lettura. Con Calogero questo non avviene. Fra Calogero e gli altri poeti (e non solo quelli calabresi) c’è un salto in avanti di secoli. In Calogero sembra non esserci gli umori della sua terra, sembra non esserci cose e persone, ma cieli sconfinati e abissi, mistero e amore mai appagato, e morte, grande desiderio di morte che sa di metafisica:
La morte
Oh sì
la morte m’innamora
e la vorrei condurre a quel sito
in cui ella come amata amante
mi ama ancora.
Calogero è uno di quei poeti così complessi e inafferrabili, specie nell’ultimo periodo della sua attività, che spesso scoraggia a proseguire nella lettura. Ma se il lettore si ostina a voler capire, ecco che ne resta affascinato e talora abbagliato dalla scoperta.
Vi s’imbatte in preziosi segreti dell’essere, in tesori gelosamente nascosti dentro i versi spesso contorti e alla prima lettura incomprensibili. Fatto positivo, qualità rara che è propria di quella poesia destinata a essere capita nel futuro».
«(…) Calogero era poeta di vasta e solida cultura, un “maledetto” raffinato, che conosceva l’uso sofisticato della parola come suono: atono, monocorde, ma intenso, un magma fluorescente ricco di «arabeschi» e di furori, di astrazioni, di immagini mentali ossessive: «Evaporò nella mano / quanto ella sapeva. / Era un mattino infermo / e non so più come il sonno verde amaro / che da una lacrima si versa / s’inumidì di sogno».
«(…) In un’intervista Andrea Zanzotto non ha esitato a parlare di Calogero come di una delle espressioni poetiche più significative di questo secolo, sottolineando le stratificazioni mentali dei processi che restituiscono alla parola, carica di una forza dirompente, il senso più sospensivo, allusivo.
JOHN TAYLOR
da Lorenzo Calogero, An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, translated and introduced by John Taylor (New York: Chelsea Editions, 2015).
Translating Lorenzo Calogero
As many Italian critics have declared over the decades, Lorenzo Calogero is a “case” in modern Italian literature. Throughout his lifetime (1910–1961), he wrote prolifically, but in total obscurity. Only a few enlightened fellow poets such as Leonardo Sinisgalli and Carlo Betocchi entered into a dialogue with him and his work. But then, within a year following his death—a probable suicide—he was suddenly discovered, widely read, and hailed as a “new Rimbaud.” The analogy is somewhat misleading, but it nonetheless informs us about this unexpected enthusiasm for poetry that had been systematically ignored.
Rather little is known about his childhood, upbringing, and education. There is some biographical information provided on the Lorenzo Calogero website and in Lucia Calogero’s edition of her uncle’s notebooks from the year 1957 (Quaderni del 1957), a hefty tome that circulates among avid readers and critics of the poet. He was born in Melicuccà, a village in Calabria—the “toe” of the “boot” of Italy. His parents were landowners. He attended the elementary school there, before the family moved in 1922 to the nearest town, Reggio Calabria, so that Lorenzo and his five brothers and sisters could continue their schooling. In 1929, the family once again moved, this time to Naples, so that the children could go to college.
When the family arrived in Naples, Lorenzo enrolled in engineering at the University of Naples. But the next year he shifted to medicine. His medical studies lasted until 1937, when he graduated. He subsequently practiced medicine in Calabria, but one biographical fact surely contributing to his long invisibility as a poet is that much of his adult life was increasingly and then permanently spent in Melicuccà. The village is located far—not just geographically—from Rome and Milan, the important literary cities of Italy. In his house in the village, he would write, send his manuscripts to publishers and poets, and collect rejections and indifference. He had a few unhappy love affairs, practiced medicine increasingly less often, spent time in psychiatric sanatoria, such as the Villa Nuccia, and then, on March 25, 1961, he was found dead in his home. He had likely committed suicide, but the causes of his death were never fully elucidated.
The posthumous surge of fame, just one year after his death, resulted from the publication, which had been enthusiastically advocated by Sinisgalli, of many of his last poems. These are comprised in the Quaderni di Villa Nuccia, in other words the thirty-five notebooks that he filled with some 169 poems and poetic fragments while he was staying at the Villa Nuccia sanatorium between February 1959 and May 1960. The notebooks were painstakingly transcribed and co-edited by the critic Giuseppe Tedeschi, who published them, along with a previously issued book, Come in dittici (As in Diptychs, 1956), as the first volume (1962) of Calogero’s Opere poetiche. This first volume of a projected Collected Poetic Works was followed by a second volume in 1966. Brought out by Lerici Editions in their magnificent series that also included substantial selections of the work of Attilla József, Antonio Machado, Aleksandr Blok, Nazim Hikmet, Ezra Pound, e. e. cummings, William Butler Yeats, Luis Cernuda, Pierre Jean Jouve, Stéphane Mallarmé, César Vallejo, and many other internationally known poets, the two volumes were supposed to be followed by a third volume. But Lerici went bankrupt and this final volume never appeared. This posthumous unlucky break occurred after so many others experienced by Calogero during his lifetime. In any event, Eugenio Montale, Mario Luzi, Giuseppe Ungaretti, and other major Hermetic poets subsequently wrote about his work. A few poems were even later translated into English, first by William Weaver in The London Magazine in 1963, and then by Vittoria Bradshaw in her anthology From Pure Silence to Impure Dialogue (1971). She interestingly defines Calogero’s work as “Hermetism’s last gleam.”
Unfortunately, the two volumes published by Lerici did not establish Calogero permanently as a major twentieth-century Italian poet. After the second volume appeared, he was increasingly neglected again until 1989, when Poesie, a Selected Poems published by Rubbettino and edited by Luigi Tassoni, appeared. But after this second surge of interest, Calogero once again fell back into oblivion. In the meantime, however, a key poet from the next generation, Amelia Rosselli (1930- 1996), had discovered his work and defended it perceptively.
In our day, an exciting renewal of enthusiasm is underway. Besides the Lorenzo Calogero website, the young filmmaker Nino Cannatà has created Città fantastica, a moving multi-media staging of Calogero’s life and work that includes a superb reading by the actor Roberto Herlizka. Academic colloquia have been held. And Caterina Verbaro’s book I margini del sogno: la poesia di
Lorenzo Calogero (The Margins of Dream: The Poetry of Lorenzo Calogero, 2011) has opened up new interpretative possibilities. Several poems from the out-of-print volumes, as well as various unpublished poems, are now available on the website, along with work translated into English, French, and German. Parole del tempo (Words of Time, written in 1933–1935, first published in 1956) was republished by Donzelli in 2010, in a volume that also includes 25 poesie (25 Poems, written in 1932–1933) and Poco suono (Little Sound, 1936). A reprint of that first 1936 edition of Poco suono was also issued in 2011 by the Nuove Edizioni Barbaro. In 2013, the composer Girolamo Deraco won the prestigious international competition sponsored by the Association for the Promotion of New Music in New York with a piece based on Calogero’s poem “A Distich is Hardly Exfoliated” and composed for piano, percussion instruments, and soprano. And my own project to translate a generous selection of this unusual poetry received, in 2013, the Raiziss-de Palchi Translation Fellowship from the Academy of American Poets. In 2014, Donzelli brought out an edition of Avaro nul tuo pensiero (Miserly in Your Thought, 1955). Calogero is now with us for good.
A question that remains implicitly or explicitly at the heart of Calogero criticism is whether the poet was mentally deranged and, if so, how this illness affected his writing. In her critical essays, Rosselli brilliantly argues that Calogero was not crazy at least as far as writing poetry is concerned. She analyzes the “difficilissima” syntax and the logic of his poetry and shows that it is not his poetry, but rather, paradoxically, his letters and discursive prose that tend to be difficult to follow. Her approach provides a framework for examining Calogero’s poetry from a new angle. She depicts a Calogero who is no longer somehow madly and spontaneously inspired but, instead, cognizant of what he wants to accomplish.
“What is unusual in Calogero’s language,” she writes, “is its plasticity and the extreme attention paid to a syntax of indirect logic, perhaps acquired from his study of mathematics [ . . . ] or through his reading of modern philosophy. [ . . . ] The most surprising gift of this ancient-modern poet is the wealth of violent, risk-taking metaphors. Sometimes he seemingly experiments in
the surrealist sense of the term; but those techniques he has mastered and surpassed, and his experimentation involves varied, more intricate, and conscious techniques.”
This being said, the stunning late poems differ in imagery and language from the earlier ones. Two periods divide Calogero’s work. The first period, the 1930s, consists of his first books, 25 Poems, Little Sound, and Words of Time: the poetic discourse is more classical, with regular meters and some rhyming at the ends of lines. The poems in the second period, which dates from the end of the Second World War to his death, show more fragmentation, more frequent syntactic ruptures, more word play, odd punctuation, some internal rhyming, and a frequent absence of transitions. Linguistic and thematic dualities become predominant. The poet and his beloved Other are sometimes designated by two or three pronouns, the narrator shifting from “I” to “you” and even to “he” or “she” in the same poem and in ways that suggest, for instance, that the “you” stands for both the poet and the Other (who can also be, at times, a death figure). In this second period, synesthetic imagery is forged from rudimentary natural elements (the mountains, the sun, the rain, the wind, and water are favorite sources). This is the fascinating work that is collected in Ma questo (But This, 1955) and Sogno non più ricordo (A Dream I Do Not Remember, 1956–1958), as well as the aforementioned volumes Miserly in Your Thought (1955), As in Diptychs (1956), and The Villa Nuccia Notebooks (1959–1960).
Another question that can be raised is whether the Second World War affected his writing. During the years 1940–1945, the poet worked as a doctor in various Calabrian towns and villages, attempted to commit suicide for the first time in 1942, and then became engaged in 1944 to a young woman named Graziella, who was a student in Reggio Calabria. During those war years, he spent more and more time in Melicuccà with his mother. During the next five-year period, from 1945 to 1950, he resigned from his steady medical doctor’s job and broke off his engagement to Graziella. Yet it must be kept in mind that the first symptoms of his “pathophobia” can be traced, according to Lucia Calogero, back to 1932–1933, with an aggravation of his fear of diseases in 1936. In other words, he already was suffering from pathophobia in medical school, a psychological state implying that the poet ended up practicing a profession for which he could not be more ill equipped.
It could be posited that a deeper personal evolution, beginning during his student years before the Second World War and increasingly affecting his poetry, was underway even if Calogero’s work nonetheless seems stylistically divisible into two distinct periods. Unfortunately, at this very late moment in time, it would be difficult, if not impossible, to gather firsthand accounts of Calogero’s life, however helpful a full-fledged biography of the poet could prove to be for understanding this “turn” that distinguishes his pre-war period from his post-war period of creativity. Yet would a biography really offer the main key to comprehending such original poetry? Another way of looking at these two periods would be to hypothesize, taking off from Rosselli’s analysis of Calogero’s poetic cogency, that it took him some fifteen years—that is, the 1930s plus the war years—to come into his own and find his style. Whatever inner turmoil he experienced, the daily labor of writing was central to his life, predominated it; in a word, it was more important than anything else, including love and his inner well-being. And it cannot be pointed out often enough that his imagery is rarely despairing or depressing; on the contrary, it frequently highlights some miraculous, affirmative configuration, such as the “orchid shining in the hand,” borrowed from a line in one of his very last poems, that I have chosen for the overall title of this selection.
Direct autobiographical sources surely fuel his imagery, but Calogero draws on them in such a way that they become universal. He transmutes whatever personal sources are at stake into poetry that is neither realist nor autobiographically specific. The poet searches for what remains immutable, beyond the variability and multifariousness of existing, and for what might offer not just personal but indeed universal metaphysical stability. This probably explains why he often transforms, in his poetry, the particularities of ever-changing human love into the less changing, “slower”—a key notion— attributes of nature. At the same time, it can be said that the details of his rich, albeit tormented inner world are not brought forth as mere hermetic entities or, to put it bluntly, as signs of mental derangement; they also have communicable philosophical resonance. Like many other twentieth-century European poets, Calogero is obsessed with the “opaqueness” of “things” facing him. He often juxtaposes something concrete and something vaster, more abstract, more structural, more architectural, more cosmic. Perspectives or dimensions suddenly open up—or close—as they do for all of us.
When I visited Calabria for three thoroughly enjoyable and enlightening days in January 2014, I was told that he would take solitary strolls around Melicuccà and its environs. Melicuccà is surrounded by ancient olive groves, orange and lemon trees, gigantic Barbary fig plants, steep hillsides, deep ravines, and at least one grotto-shrine, associated with the Calogero family, in which mysterious “sacred” water drips from the ceiling into a stone font. I took a paper cup, dipped it into the font, and sipped the same cool, slightly muddy water that Calogero also tasted. It is known that he would hike up there and remain for a while.
Nino Cannatà shared with me some of his own penetrating insights into the relationship between Calogero’s verse and the impressive Calabrian landscape, which includes abrupt “transition-less” ruptures between sunlight and shadow, between aridness and verdant vegetation, between steepness and gentler slopes, between the pervasive quietude of this rather remote area and the ever-present potential of violent volcanic activity—with the awe-inspiring Aspromonte mountain range in the distance. The closest Mediterranean shore is not visible from the village, but it is not far away. From that shore on the other side of the high hills sheltering the village, one can spot majestic Mount Etna. During my visit it was fuming and, one evening, a fata morgana effect
that is well known locally made Sicily seem closer than it actually is. In other words, Calogero’s symbolism based on natural elements is probably spawned from his intimate observation and daily sensate experience of this at once stark and soothing Mediterranean environment. In these sensation-rich surroundings and in this ages-old village, as well as in the Villa Nuccia sanatorium, Calogero underwent intense periods of creativity: the dates inscribed in his notebooks sometimes show several poems written on the same day. I imagine him as yearning in vain to be read by his fellow poets and to be published, brooding over lost love all the while idealizing it, and avidly perusing books in a variety of fields. We know that he was absorbed in philosophical, theological, biological, and mathematical questions. Given the contents and tone of the poems, it is hard to imagine him as happy in this otherwise lovely village retreat. At the same time, he must have had an exceptional inner drive. Despite the lack of encouragement, he kept on writing.
His characteristic themes revolve around the search for the self and the Other (who, as I have suggested, sometimes resembles a death figure). Dualities of all kinds, both inner and outer, remain in tense confrontation. The quest for “lightness” or “levity”—“lievità”—crops up constantly, as does the same quest for calm, quietude, or silence. Geometry is present through references to circles, squares, concave curves, perpendicularity, and straight lines. Although there are a few exceptions, his poetry seems to derive much less from a Roman Catholic heritage than from an acute sensitivity to natural phenomena and to amorous sentiment in the presence of the beloved Other. It should be kept in mind that Calabria was a part of Magna Graecia: this region was deeply marked by Hellenism and paganism. This influence is still visible in Calabrian folkways.
Is Calogero a Romantic in a Modernist’s garb? His soul-searching set in Nature situates him among the Romantics. Yet there is something more incisive in his work than Romantic existential weariness. Calogero is rarely emphatic in this respect, and, for all his stylistic oddness, he remains concise, precise. Far fewer sighs fill out his verse than insights into how inner and outer worlds interact, notably through perception. The poet Giorgio Caproni even argues that Calogero’s “authentic and noble message is that of a despair by now so elevated, and calm, that it retains no traces of romantic sorrow, or existential dismay or anxiety.” This strikes me as slightly exaggerated—traces of romantic sorrow and existential anxiety are perceptible here and there—but it is important to notice, as Caproni does, that Calogero’s overall intention is to transcend archetypal Romantic woes and torments through a poetic language, especially in his late work, that exhibits many features of modernism. To recall T. S. Eliot’s definition, Calogero likewise “forces, dislocates, if necessary, language into its meaning.” When faced with the Italian originals, my feeling of “dislocation” is constant.
As to the difficulties of rendering these poems, let me first point out that Calogero appeals to all the liberties of Italian syntax, which is potentially freer than our English word order because our language lacks most of the grammatical markers that Italian possesses, not to mention feminine and
masculine genders. To preserve meaning and coherency, we have to line up semantically connected words quite close together and often right next to each other. In Italian, this is not necessarily so. The translator therefore has to appraise the extent to which Calogero is employing this syntactic freedom normally, as any Italian could, or taking advantage of it for unique poetic effects. Moreover, his late work is characterized by stylistically eccentric, yet significant repetitions of simple Italian words such as “o” (“or”), “e” (“and”), “ma” (“but”), and “forse” (“perhaps”), as well as negative formulations such as “I don’t know” or “[something] no longer exists.” Negation is, in fact, conspicuous. In other words, he highlights dualities and doubts, the former quality being particularly important. Think of his telltale title, As in Diptychs; countless lines in his verse express division or dichotomy. If one translates him more or less word for word, line for line, the result can be strange in English and sometimes hard to construe; if one doesn’t, one runs the risk of smoothing out what is significantly rugged or “transition-less” semantically (but not necessarily so rhythmically and in the poet’s use of assonance and alliteration). All along, it must be kept in mind that syntax represents the very processes of perception, thinking, and emotion. It is these processes,
which may well be discontinuous, fragmented, deformed or dichotomous, that Calogero is seeking to capture.
Here and there, I have made syntactic adjustments that usually involve moving an adjective or an adverb, a subordinate clause, or even an entire line of verse back to a more natural position in English. But as a general rule, I strive to reflect his poetic logic as faithfully as possible. I want Calogero to write in English. There are other complexities. For example, semantic ambiguities crop up. Unless an emphasis on the subject is implied, Italian grammar does not require a pronoun to be stated as the subject of a verb: “scrivo” means “I write,” and adding “io” (“I”) is often redundant. In Calogero’s poetry, it is sometimes unclear whether a verb in the third-person singular—“è” (“is”), to cite the simplest example—refers to “he,” “she,” or “it” (a given object). Context usually helps, of course, but when I show the puzzling cases to my Italian poet-friends, they do not always agree among themselves. I have had to make choices and, in still other places, offer interpretations.
It could be argued that such grammatical ambiguity is due to a lack of revision, especially when we know that Calogero, in writings such as the Villa Nuccia series, used notebooks to inscribe poems that were not then later recopied into a genuine manuscript, a process that often induces a writer to rework and clarify his first drafts. This critical hypothesis can be neither dismissed nor verified, except perhaps for late works such as But This and As in Diptychs, which were issued during his lifetime (and yet which also have their thorny spots). Otherwise, we will surely never know the answer to this conjecture. And yet Calogero’s ambivalently centered perceptions and heterogeneously structured thoughts are often indeterminate in ways that suggest no less than the very flux and “density”—another recurrent notion—of our cognitive processes, in which, especially when amorous feeling is involved, “I” and “you” and third-person entities indeed sometimes blend and then come apart again. In a letter to the poet Vittorio Sereni, Calogero in fact explains, in regard to his own poetics, that “the objects of poetry never belong to what has already been thought; instead, they are the margins of certain thoughts, or simply of certain poetic intentions, yet they are defined from time to time during the labors devoted to pure expressive research.” This revealing remark parallels how Sinisgalli, in his introduction to the 1956 edition of As in Diptychs, incisively attempts to clarify Calogero’s approach by appealing to a statement made by the artist Paul Klee: “I cannot be grasped. I am near the heart of creation more than it is possible and yet not as close as I would like to be.” This is the quotation to keep in mind.
For the original Italian texts of the poems that I have selected and translated here, I have used the standard volumes of Calogero’s poetry and, with the following abbreviations, noted the sources and page numbers below each poem:
[OP1 ] Opere poetiche, volume 1, for Come in dittici and Quaderni di Villa
Nuccia.
[OP2 ] Opere poetiche , volume 2, for Ma questo and Sogno piú non ricordo.
[Q57 ] Quaderni del 1957, for the notebooks from the year 1957.
[PT ] Parole del tempo, for 25 poesie, Poco suono and Parole del tempo.
[AP ] Avaro nel tuo pensiero.
[LC website ] The Lorenzo Calogero website (www.lorenzocalogero.it) for
a few unpublished poems from the notebooks filled during the year 1936.
I have also consulted the selection Poesie (1986) and the reprint of Poco suono (2011), which show a few textual differences (that I have not adopted). It should be kept in mind that A Dream I No Longer Remember and The Villa Nuccia Notebooks were published posthumously. The editors of the two volumes of Collected Poetic Works point out the difficulties involved in establishing the texts, several of which were indeed published as fragments when words, lines or entire parts of poems were indecipherable on the notebook pages left behind by Calogero. I have respected the Italian texts as they are found in the above volumes. This rule applies to the poet’s spelling— with the exception of obvious misprints, which I have corrected—and his use of a few rare words and neologisms. One poetic fragment in The Villa Nuccia Notebooks even begins with a semicolon: I have left it as such. I have made the accents on words such as cosí and piú conform to contemporary usage (così, più). Finally, Calogero nearly always used the first line (and occasionally another line or phrase) of his poems as titles, sometimes adding an ellipsis as well. I have followed his practice, and the reader should also be attentive to the specific poems that respectively give a title to an entire collection. For this reason, I have departed from standard English usage and capitalized only the first word of the English titles.
*
Let me express my heartfelt gratitude to Alfredo de Palchi, the Academy of American Poets, and the American Academy in Rome, where I stayed for five weeks on the Raiziss-de Palchi Translation Fellowship. This generous and stimulating fellowship enabled me to translate Lorenzo Calogero’s poetry under excellent conditions.
Let me convey my gratitude to Mario Calogero, and to the other members of the poet’s family, for their encouragement. The same gratitude goes out to Luigi Fontanella, who was the first of my Italian poet-friends to speak to me about Calogero’s work and who has enthusiastically supported this project. A “thousand thanks” as well to Antonella Zagaroli, Marco Morello, Anamaría Crowe Serrano, Vittorio Napoli, Steven Grieco, and Valérie Brantôme for making invaluable comments on my translations. I would also like to thank Caterina Verbaro for her precise answers to my several editorial, bibliographical, and lexical questions; her study, I margini del sogno: La poesia di Lorenzo Calogero, provides numerous insights into the poet’s oeuvre. Let me signal out the filmmaker Nino Cannatà, who was helpful and encouraging in countless ways while I was working on this project and who was my tireless guide while I was visiting Melicuccà, Reggio Calabria, and Palma on 7– 9 January 2014. I learned much from his knowledge of the poet. He is greatly responsible for the revival of interest in Calogero’s poetry, notably through Città fantastica, his moving filmed staging of the poet’s life and work. Warm thanks as well to Eleonora Uccellini, Giuseppe Mazzù, and Daniele Castrizio.
While I was in Calabria, the Associazione Culturale Anassilaos awarded me the Anassilaos Prize for this project. I was deeply touched by this unexpected gesture and I would like to thank all the members of this association for their generosity and kindness.
© John Taylor [September 30, 2014]

LUIGI TASSONI
Il luogo di un luogo amato
in La provincia di Catanzaro, II, 4, luglio/agosto 1983, pp.85-87
«Il tema calogeriano è in parte cancellato, velato, protetto, perché non ha partitura fissa ed è riconoscibile nelle sue parti, nel microcosmo del frammento, questo limite strenuo al disordine totale, figlio del disordine che lo precede. Il mondo di Calogero è tutto preso da questo mistero, da questa folla di tracce e sensi non corrisposti.(…) Non a caso l’interlocutore è senza nome, senza volto, senza corpo, è schermo dell’io. (…) Il frammento emerge dal caos e non da una consapevolezza del sentimento.(…) La parola è già un sentimento e non vi si rinuncia, è un gioco serissimo. La parola contende l’informale a ciò che la precede, contende il non detto, ma è sorpresa, velata, impegnata in metafora, per non perire, per non dirsi ultima e per non dire ultime cose.(…)
Il canto è concepito come pausa rispetto al silenzio, è l’unica conseguenza possibile «poi le parole / venivano come angeli».
GIUSEPPE TEDESCHI
Prefazione a Lorenzo Calogero
in Opere poetiche I, Milano, Lerici, 1962, p.XXXII
«È un groviglio insensato. Si ha l’impressione che il poeta restituisca nelle sue parole una realtà straordinariamente effimera, una realtà che vive, muore e rinasce in un soffio. Riesce a dare il senso di un moto, di un murmure, di un’animazione, di un brivido, la vita labilissima raccolta in una traccia di parole. È un groviglio qualche volta insensato come un arbusto che geme al vento o il lampo incerto che riusciamo a ritrovare nel brulichio della memoria.(…) Non resta una storia, una figura, un oggetto, ma solo il fluire di una vena, l’incanto di una voce».
Quando finirà la «rimozione» del martoriato Lorenzo Calogero?
in La provincia di Catanzaro, Speciale Lorenzo Calogero, II, 4, luglio/agosto 1983, pp. 12-13
«Il dolore e la rabbia per la persistente «rimozione» attuata da tanti storici e critici e lettori di professione nei confronti del poeta Lorenzo Calogero mi imporrebbe una unica linea di condotta: quella dell’invettiva. Ma servirebbe a qualcosa? Sicuramente no, tanto è coriacea, proterva e cinica la personalità di questi grandi manipolatori della nostra letteratura oltre che grandi equilibristi e gran ritualisti di antologie, enciclopedie, rassegne, almanacchi. Mi piace sottoporre, però, al loro arrancante storicismo utilitaristico e consumistico almeno una serie di quesiti di formulazione classicamente retorica, e con tutte le dosi di ironia e di disprezzo che sempre sono alla base di ogni formulazione retorica. Può dirsi storico quello storico che storicizza soltanto dati e nomi di parte vincente e pagante? Può dirsi antologista quell’antologista che sceglie autori e testi soltanto su indicazioni di clan e di legge? Può dirsi enciclopedista quell’enciclopedista che inserisce e esclude autori soltanto sulla base di una presunta commercializzazione editoriale di quel momento? Tutto ciò è successo e continua a succedere nei confronti di Lorenzo Calogero, poeta senza potere e senza violenza, senza clan e senza logge, senza commerci e senza editori, poeta senza ricatti.
Tentammo tra il 1962 e il 1965, Roberto Lerici e io, sobillati da quel grande scopritore di talenti che era Leonardo Sinisgalli, di far capire ai nostri aerofagi lettori di professione, e antologisti e enciclopedisti, la strepitosa importanza di questo poeta: ma dopo gli entusiasmi, gli osanna, gli urrà di questi pochi anni ognuno riprese il proprio piccolo cabotaggio dei gruppi, dei clan, delle logge. Possibile che in tutti questi anni mai nessuno, di costoro, abbia voluto più seguire il senso di quegli osanna e abbia voluto più rileggere qualcuno della valanga di versi che Roberto Lerici e io riunimmo in quei due splendidi volumi rilegati in tela rosso sangue e intitolati Lorenzo Calogero: Opere Poetiche?
Non spetta a me ripercorrere anche qui la sublime storia letteraria e umana di Lorenzo Calogero. Posso aggiungere, semmai, e a titolo di sperabile resipiscenza per i tanti cinici e frettolosi critici e storici e enciclopedisti di cui ho parlato prima, che tutte le volte che rileggo qualcuno dei versi di questo estasiante e straziante poeta rischio di lasciarmi travolgere dalla commozione. Né credo che ciò mi capiti soltanto perché ne riconnetto i flussi e le cadenze, la pena, la macerata melodia, alla sua figura assorta e sofferente, dolce, mitica che ho sempre viva nel ricordo. Sono certo che ciò capita perché la sua poesia, come tutta la grande poesia, rivela ogni volta un fascino nuovo e ininterrotto, misterioso, irraccontabile. Mi convince, a volte, rimanendone anche abbastanza frastornato e incredulo, di essere uno degli ultimi individui cui sia potuto capitare il raro privilegio di conoscere e frequentare il più sublime dei poeti italiani contemporanei. Se dilungo, poi, l’intreccio al ruolo e alla presenza avuti nella faccenda da quell’altro impareggiabile e ancora più sublime poeta che si chiamava Leonardo Sinisgalli, dovrei parlare di connessioni irripetibili, quasi miracolose.
Non riesco a aggiungere altro sul mio brevissimo e non più dimenticato rapporto umano con Calogero. So, con certezza, questo: che mi bastarono due o tre giorni (tra il 5 e il 7 novembre del 1960: giorni del suo arrivo e del suo ricovero ospedaliero a Roma) per vedere che quest’uomo malfermo e sofferente e già in sintonia con la morte (avvenuta tra il 23 e il 24 marzo 1961) emanava splendori poetici incontaminati e ininterrotti, ampiamente convalidati, poi, dalla lettura dei suoi versi, a incastri deflagranti, a illuminazioni pluridimensionali, a melodie strazianti e pacificanti allo stesso tempo. Eccone, del resto, di questi versi, qualche stralcio dei giudizi che dilagarono sulla stampa, italiana e internazionale, dopo la pubblicazione delle sue Opere Poetiche.(…) Appare evidente, a questo punto, che ogni mia altra aggiunta è completamente inutile, anche perché credo che siano gli stessi intellettuali e politici calabresi a non aver capito la grandezza di questo loro conterraneo o che siano essi stessi a favorirne la «rimozione».
THE TIMES LITERARY SUPPLEMENT
Londra
«…si ha l’impressione che tutto si sia sviluppato sotto il livello della coscienza. Le immagini si fondono, le parole si associano stranamente, spesso la sintassi è dislocata, i ritmi quasi ipnotici. Non si può dubitare che questo flusso abbia una forza straordinaria e neppure si può dubitare dell’abilità di Calogero nel disporre le immagini in improvvise giustapposizioni bellissime, né della sua perizia musicale… »
CATERINA VERBARO
Il caso Lorenzo Calogero
da Le sillabe arcane, Vallecchi editore, Firenze 1988, pp 11-14
E’ nel giugno del 1962 che la cultura italiana scopre di aver guadagnato un nuovo grande poeta, Lorenzo Calogero. Lo scopre inaspettatamente, tra l’orgoglio e il disagio, con uno stupore che crea immediatamente la formula di ‘caso letterario’. Risale infatti a questa data la prima pubblicazione importante di Calogero, il primo volume delle Opere poetiche edite dalla Lerici, nella prestigiosa collana dei “Poeti Europei”, accanto a nomi come Jozsef, Salinas, Machado, Blok, Saint-John Perse, Hikmet, Pound, Yeats. La risonanza della sua voce poetica, stavolta, è assicurata. La critica italiana, ma anche quella internazionale, ha trovato il suo nuovo mito. Perché ci si rende subito conto di essere davanti non soltanto ad una poesia viva, autentica, imprescindibile, ma, anche, ad un caso umano impensabile, da indagare, da forzare, a costo di deformarne il senso. Così, fin dall’inizio della vicenda pubblica di Lorenzo Calogero, il suo vissuto e la sua critica diventano due aspetti indivisibili, due strade parallele pericolosamente vicine. Il pericolo consiste nel risolvere l’una nell’altra. E nel fare così, di questa vita “disperata e “solitaria” – gli aggettivi che più frequentemente ricorrono sulla stampa del periodo a proposito di Calogero – la sua unica e più eloquente poesia, o, all’opposto di ignorare quel particolare senso della vita che traspare dalle sue poesie (…)
(…) E’ così che il ‘caso umano’ di Lorenzo Calogero prende il sopravvento sulla realtà del testo. D’altra parte si tratta quasi sempre di recensioni occasionali su quotidiani o periodici, sedi in cui ciò che conta non è tanto l’analisi, quanto la notizia.
(…) si presenta la storia di un uomo che scelse la poesia in maniera totale e definitiva, non come ancella ed espressione e prodotto della vita reale, ma come luogo-altro, invenzione, tensione all’assoluto. Una poesia che, così intesa, “distrugge tutta la vita organizzata di un individuo”, che non concede scampi e meditazioni, che non convive col reale, che lo lacera(…)
(…) I lettori e i critici di allora avvertirono fortissimamente il fascino inconsueto di questa lacerazione. Ed era giusto che fosse così. Meno giusto e meno costruttivo fu, da parte di alcuni critici, assumere questo dato come unico, e leggere Calogero in base non alla poesia che egli ci ha lasciato, ma ai miseri eventi esteriori della sua vita (…) si limitarono a raccontare la solitudine e l’emarginazione di un uomo, divenuto all’improvviso un personaggio, una sorta di capro espiatorio delle colpe, delle omertà, delle incomprensioni, delle sordità degli ambienti letterari. Calogero fu subito caso letterario, caso umano, caso clinico, caso, insomma; emblema del sacrificio indifferenziato, morto che parla ai vivi con la sua morte e con la sua vita, lui che avrebbe voluto parlare ed esistere solo nella sua poesia(…)
(…) Troppo deciso fu, all’epoca, il coro di elogi e di esaltazione che si levò a proclamare che si trattava “non di un poeta interessante in più, ma di un poeta eccezionale”, come sostenne Ruggero Jacobbi; di “un poeta che senza dubbio rimarrà come una delle più alte espressioni della poesia italiana e forse mondiale degli ultimi cinquant’anni” F. Virdia, di “un poema orfico, che ha altezze degne di Novalis, Nerval, di Rilke; da noi non vedo esempi analoghi” G. Vigorelli. A favore di Calogero si levarono le voci tra le più autorevoli della letteratura italiana. Dice ad esempio Giorgio Caproni: “la sua poesia – un vero tesoro rimasto ancora sommerso – . E Montale sostiene: “fu dotato di un reale temperamento poetico”. E, ancora, Luzi: “Le poesie di Calogero sono un episodio notevolissimo della nostra storia”. E Ungaretti: “Lorenzo Calogero con la sua poesia ci ha diminuiti tutti.
FERDINANDO VIRDIA
in La Voce Repubblicana
«…un poeta che senza dubbio rimarrà come una delle più alte espressioni della poesia italiana e forse mondiale degli ultimi cinquant’anni…»
A. R. TELEGRAM
Zagabria
«…questo semplice e coerente lirico italiano ci colpisce con i suoi versi come un’autentica scoperta e ci sembra giusto metterlo in rapporto con Èluard… la lirica di Calogero è una lirica di nostalgia dell’amore. Era questa l’unica forma di vita che resistette in lui fino alla fine…»

GIORGIO ZAMPA
«…il grande retaggio della poesia moderna lasciato dal Mallarmé è stato assunto da Calogero e riportato a una purezza che oggi direi che sia senza equivalente… »
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